Santafé de Bogotá, dicembre 1995
“Essere e Tempo di Martin Heidegger e la critica all'umanesimo metafisico” è un ampio saggio che consta di due parti: la prima, intitolata “Il primo periodo di Heidegger”, e la seconda “L'umanesimo come problema filosofico”. Il lettore può richiedere l'opera originale completa al Centro Mondiale di Studi Umanisti.
Va spiegato, usando le parole dell'autore, che “Ciò che si cerca in questo lavoro è di dare, in qualche modo, una risposta al testo di Salvatore Puledda: Interpretazioni dell'Umanesimo; in particolare al capitolo intitolato Heidegger e la critica all'umanesimo metafisico. Ciò non significa dissentire da tale lavoro, né ripetere quanto vi è già esposto. Ciò che si pretende è sviluppare alcuni aspetti enunciati nel testo e presentare diverse alternative…”
Su questa parola (“Umanesimo”), sì che ci sono equivoci, giacché persino i gruppi più eccentrici si tacciano di essere umanisti; ne risulterebbe una varietà indefinita di umanesimi che non fanno altro che aumentare le possibilità di critica a questa denominazione tanto ambigua. Per parlare di umanesimo non si può non parlare del movimento culturale che sorse in Italia nella seconda metà del secolo XIV e si estese in Europa, ponendo le basi della Modernità. Senza entrare in dettagli, poiché Salvatore Puledda nel suo “Interpretazioni dell'Umanesimo”se ne occupa ampliamente, possiamo dire che in questo movimento rinascimentale si giunge alla scoperta e all'affermazione dell'uomo come totalità destinata a dominare il mondo. L'umanesimo andrebbe inteso come atmosfera culturale. Da questa concezione, e per estensione di essa, si sogliono qualificare umaniste tutte quelle concezioni filosofiche “che attribuiscono dignità e valore all'uomo in quanto tale”.
Bisognerebbe riferirsi all'umanesimo rinascimentale come ad un atteggiamento intellettuale più che ad un sistema dottrinario; soprattuto risalta una fede nella razionalità degli esseri umani. Prenderemo come esempio il concetto della storia in Voltaire, contrapposto a quello di Rousseau. Vediamo.
Rousseau predica la natura ed il ritorno alla natura perché crede che solo ritornando a ciò che è naturale si tornerà all'uomo buono. L'esperienza di Rousseau è, quindi, l'esperienza della malvagità, per un lato, e, per un altro, l'esperienza della possibilità di una sua cura grazie al ritorno al suo stato naturale; ricordiamo una sua frase famosa: “l'uomo nasce buono e la società lo corrompe”.
Voltaire parte come Rousseau dalla malvagità degli uomini. Per Rousseau le follie dello spirito umano: crudeltà, egoismo, ingiustizia, ignoranza, non hanno altra motivazione se non l'allontanamento dell'uomo dal suo antico essere, che è la natura; per Voltaire la natura è istinto, confusione e sregolatezza. Per questo bisogna allontanarsi dalla natura mediante la razionalità. Come possiamo vedere, sono due punti di vista radicalmente opposti.
Entrambi cercano con veemenza la bontà: Rousseau nella natura, Voltaire nella ragione. Per Voltaire la malvagità e l'ignoranza dell'uomo sono dovute alla permanenza nella natura, che si può però migliorare, mediante un progressivo perfezionamento, tramite la ragione. Ma se l'uomo può essere perfezionato, non può tuttavia essere trasformato. Istruzione è abbellimento, compassione e ornamento. In un testo di Voltaire Elogio storico della ragione, si descrive la situazione storica dell'Europa, dall'invasione dei barbari, attraverso l'epoca merovingia, il medio evo, la conquista di Costantinopoli e le sanguinose lotte religiose dell'epoca moderna; secondo l'interpretazione di Voltaire, durante tutto questo tempo regnarono l'ignoranza, il furore e il fanatismo; la ragione rimase nascosta assieme alla verità, sua figlia, e solo ad un certo momento, informata di ciò che stava accadendo, si decise ad uscire tutta impaurita, toccata dalla bontà.
Questa asprezza e codardia della ragione e della verità, questo sorprendente filisteismo, mostra ciò che Voltaire intende per istruzione e perfezionamento dell'uomo. Sembrerebbe che la ragione e la verità vogliano solo “sfruttare i giorni belli” finchè durano e tornare al loro nascondiglio appena sopraggiunge la tempesta. In altre parole, la verità e la ragione possono soccombere facilmente di fronte alla furia distruttiva degli uomini e non sono nulla di fronte alla natura, alla mortalità e alla caducità. Ma vuole anche dire che la ragione è tutto meno che onnipotenza, è prudenza e buon senso, anche debolezza, codardia e fragilità; per questo è qualcosa che l'uomo deve conquistare con grande sforzo.
Questa conquista è un nascondere e uno svelare continuo ed è proprio questo che costituisce la storia dell'uomo. Quindi la ragione è una scoperta, non una rivelazione. Lo spirito, la ragione e la verità possono scomparire violentemente, travolti dalle forze elementari, cui poco importa la fiamma estremamente esile, ma estremamente valorosa dello spirito. Pertanto, la scoperta della ragione, la sua apparizione sulla faccia della terra, rappresenta l'avvento di un'era predisposta allo spirito. Lo spirito si istalla nel cuore degli uomini quando questi gli offrono l'alloggio che corrisponde alla sua condizione. Ma chi può offrirgli alloggio? Non si può istallare nel cuore di nessuno, giacchè esso è il luogo della menzogna, il luogo dove s'agita il cambiamento.
Coloro che possono dargli alloggio non sono gli uomini di cuore bensì di intelletto, coloro che cercano la pace e non la guerra, coloro che cercano il bene. Voltaire per tanto non cerca la buona intenzione, bensì la retta intenzione. L'Eguaglianza della ragione e della verità, la sua sobrietà, la sua poca tenerezza, sono per Voltaire proprio la miglior garanzia che esse non inganneranno mai l'essere umano. Ma bisogna capire che la sfiducia nei confronti del cuore e del sentimento, è generata più che da loro stessi, dal risultato dei loro atti: cuore e sentimento, stupidità ed egoismo, hanno segnato finora la storia umana, una storia che non è stata altro che un'accumulazione di eccessi. Pertanto la scoperta della ragione non è sufficiente per trasformare la barbarie in civiltà; può dare origine alla più pura verità, ma anche alla più mostruosa menzogna.
Quello che si cerca di trovare, una volta dato alloggio alla ragione, è ciò che è veritiero: “è la verità”. Questo è ciò che Voltaire cerca nella storia. Voltaire cerca di concepire una verità pura, priva di leggende e di favole, non avvertendo che anche questi fantasmi costituiscono la storia. La verità della storia è il suo spirito; cercare sotto l'apparenza dei fatti appariscenti, dei personaggi influenti, del fragore delle guerre e dell'astuzia degli Stati, è trovare ciò che è la storia: la sua verità. In altre parole, leggere il passato alla luce della ragione e della critica. Si può vedere l'ottimismo di tutti gli illuministi, quando cercano e sanno di trovarsi in un mondo che si può dominare col proprio sforzo, in un universo nel quale sarebbe stata estirpata per sempre l'ignoranza. Quello degli illuministi era un ottimismo rampante.
Con questo abbiamo “fatto luce” un poco sull'atmosfera e l'atteggiamento intellettuale dell'uomo del rinascimento. C'è “buona volontà” riguardo alla soluzione dei problemi dell'uomo. Si cominciano a denunciare le possibili alienazioni alle quali sono sottomessi gli umani; si comincia a riconoscere che cè qualcosa di intrinsecamente valido in questo, negli atteggiamenti di base che sono stati chiamati umanisti. Senza dubbio il problema in questione non è chiaro; in seguito si cerca di aggettivare l'umanesimo, cercando di rimpiazzare un significato tradizionale e sociale dell'umanesimo (quello liberale) con “tutto un altro” umanesimo, nel quale gli atteggiamenti di base sarebbero fondamentalmente differenti da quelli vigenti: ma allora sorge il dubbio sul perchè si ricorra alla stessa parola; salvo che si voglia equiparare questa a “una concezione dell'uomo”, ma qui la questione si aggrava ancor di più, poichè in tal modo qualsiasi concezione dell'uomo, per quanto antitetica all'umanesimo, può essere chiamata umanista. A quanto sembra c'è un riconoscimento di valori nell'uso abituale del termine (quello liberale).
Ma ormai la parola è stata gestita in così diversi modi, che si è persino concordato di darle un peso ideologico. Come il denaro, anch'essa ha sofferto una inflazione senza precedenti.
Se volessimo sintetizzare gli aspetti fondamentali degli umanesimi più in voga si potrebbe dire: 1- Affermazione di ciò che concerne la scala umana: rifiuto dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, del sovrumano e del subumano; 2- Una sorta di ecumenismo e cosmopolismo filosofico al di sopra delle differenze e delle particolarità locali; 3- Affermazione della vocazione alla trascendenza dell'umano; si annuncia l' “uomo nuovo” come promessa di una nuova umanità. Di fronte a questa vocazione di trascendenza si trovano due direzioni: quella progressiva, che consisterà in un farsi in libertà, sul suolo della storia; quella regressiva, che è un farsi secondo un archetipo eterno dell'umano che va scoperto attraverso o sotto i differenti atteggiamenti storici.
Il termine umanesimo è recente; fu usato per la prima volta da F.J. Niethamer, nel 1808, applicato alla rivalutazione degli studi delle lingue classiche; in questo senso poteva essere riferito sia al periodo rinascimentale, sia al momento storico che viveva allora la Germania. È certo che durante il rinascimento venne coniato il termine “umanista” (dal 1512), ma il suo uso era eminentemente tecnico: aveva il significato di professore di retorica o specialista negli “studia humanitatis”. Nel senso dell'atmosfera spirituale del rinascimento che abbiamo descritto prima, non viene identificato come tale fino al secolo XIX.
Egli stesso riconosce all'inizio della sua conferenza “L'esistenzialismo è un umanesimo”: “molti potranno meravigliarsi che si parli qui di umanesimo. Vedremo in qual senso l'intendiamo. In ogni caso possiamo dire subito che intendiamo per esistenzialismo una dottrina che rende possibile la vita umana e che, d'altra parte, dichiara che ogni verità e ogni azione implicano sia un ambiente, sia una soggetività umana”. Sartre col suo umanesimo vuole dare valore di posizione filosofica ad una dottrina che lui chiama esistenzialismo. Sartre nella sua conferenza affronta una situazione che si sta vivendo in quel dopoguerra in Europa. L'intenzione del filosofo non è quella di chiarire il termine umanesimo, anzi, contribuisce a confonderlo ancor di più. La discussione è diretta a lettori specialisti e filosofi, sebbene abbia un aspetto divulgativo.
La conferenza contribuisce a creare maggiore incertezza riguardo all'umanesimo filosofico. In primo luogo dice che il vero umanista deve essere ateo, che l'esistenzialismo è l'autentico umanesimo. Con ciò si radicalizza un punto di vista che chiude possibilità sotto molti aspetti, ma apre anche alternative: si può dire che con Sartre viene eliminata quella figura dell'interiorità stessa dell'uomo, nella quale l'uomo era scivolato quando venne ipotecata la contingenza come definizione di una pretesa “natura umana” o essenza. È stata persino eliminata ogni ricaduta nell'immutabilità, proprio quando si pretende di smascherarla, riapparendo come chiave di volta, soggetta a leggi irreversibili. Non si può negare che, con Sartre, la sventurata coscienza ottiene, alfine, ciò che rivendicava: essere tematizzata “tale e quale”, senza collegarla ad alcun ente, a nessuna res che le faccia da supporto. Malgrado ciò, Sartre cerca di accoppiare “esistenzialismo” e “umanesimo” e questo causerà i vacillamenti in cui ci si imbatte lungo tutto il testo. La posizione sartriana sembra condurre necessariamente alla dissoluzione del paradigma umanista, per sostituirlo con un altro, di per se' tragico, dove la sovranità della dignità della natura umana lascia il posto alla figura del condannato alla libertà.
Sartre discute con i cristiani e con i marxisti, con il desiderio di restituire una filosofia che, malgrado le sue pretese, rifiuta in fondo di compromettersi, non solo dal punto di vista politico e sociale, ma anche filosofico. Questa situazione, identificata dallo stesso Sartre, sembra condurre inesorabilmente allo svuotamento di contenuti del termine, ad un suo totale impoverimento. Sembrerebbe che si suggerisca tacitamente un abbandono del termine, pena la riduzione della riflessione filosofica ad una mera duplicazione secolare, legittimatrice di posizioni dottrinarie, religiose o ideologiche.
Un anno dopo viene pubblicata la risposta di questo filosofo alla domanda che gli sottopose J. Beaufret: come tornare a dare senso al termine umanesimo? Questa domanda già suppone in anticipo che la chiarezza sul termine è stata persa. Nella lettera sull'umanesimo, Heidegger traccia una storia dell'idea di umanesimo dall'antichità greca fino al presente, restituendo i differenti significati del termine. Ma il testo, come tutto ciò che scrive Heidegger, va oltre la questione dell'umanesimo per scorrere tra la riflessione sulla differenza ontologica fra essere ed ente, la domanda sul fondamento della metafisica e la questione dell'oblio dell'essere; qui c'è un Heidegger in transizione verso una seconda tappa dove si occuperà del problema della modernità, della tecnica e della verità.
Riguardo alla domanda sull'essere abbiamo già riferito ampiamente quando abbiamo fatto allusione all'analisi esistenziale1). L'essere è qui il luogo dell'emergere di un avvenimento a due facce: un'apertura dell'essere dell'uomo, che lo invita a partecipare di esso; un movimento dell'uomo verso l'essere, che si lascia assumere da esso, offrendogli questo cuore sensibile nel quale agli immortali piace riposare. In questo contesto, l'uomo rimarrà caratterizzato non come un ente unito agli altri enti, o sopra gli altri enti, ma come elemento differenziale: come il pastore dell'essere.
Nella lettera sull'umanesimo Heidegger ha due tipi di riserve. In primo luogo, la diffidenza verso tutti gli “ismi” che la filosofia possa avere, che non sono altro che il segno dell'alienazione del linguaggio, dell'allontanamento dalla sua essenza. Sotto l'impero dell'ismo, il linguaggio esce dal suo elemento per cadere sotto la dittatura della pubblicità: “La decadenza del linguaggio, della quale, da poco e con ritardo si parla molto, non è tuttavia la ragione, bensì una conseguenza del processo per cui il linguaggio, sotto l'azione della metafisica moderna della soggettività, esce così imperdonabilmente dal suo elemento. Il linguaggio ci nega la sua essenza quando sa di essere la dimora della verità dell'essere. Il linguaggio si consegna in tal modo al nostro puro volere e alla nostra attività come uno strumento di dominio sull'ente. E l'ente stesso appare quindi come il reale nel tessuto delle cause e degli effetti”. La lettera di Heidegger è una contestazione del termine umanesimo come definizione scolastica. “Nel loro periodo più splendido i greci pensarono senza tali etichette. E tantomeno chiamarono filosofia il pensiero. Se l'uomo vuole raggiungere un giorno la vicinanza con l'essere, è compito primario che impari ad esistere in ciò che non ha nome”.
In secondo luogo, quello che costituisce il grosso della sua argomentazione anti-umanista: l'umanesimo non pone sufficientemente in alto l'essenza dell'uomo. Che l'uomo é, é un fatto che va ripensato in modo più originale. Di fronte alla caratterizzazione del marxismo, che colloca l'uomo come uomo natura, o alla caratterizzazione del cristianesimo in relazione alla deità, Heidegger segue una via di pensiero più originale, già aperta da Holderlin. “Per diverse che siano queste varietà dell'umanesimo riguardo al fine ed al fondamento, il modo ed i mezzi di realizzazione, o per la forma della dottrina, esse sono comunque daccordo su questo punto, che la humanitas dell'homo humanus viene determinata a partire da una interpretazione fissa della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, vale a dire dell'ente nella sua totalità”. Questo sarà per Heidegger il presupposto metafisico di tutto l'umanesimo, al quale egli replicherà che non è l'essenza dell'uomo, ma la verità dell'essere - che se è possibile determinare un elemento essenziale, è in virtù della sua vicinanza all'essere. “Proporre all'uomo soltanto l'umano è tradire l'uomo”.
Da questo oblio sorge la possibilità di affermare che l'essenza dell'uomo riposa sulla animalitas, che l'uomo è un ente, una forma di vita. Proprio questo è quello che fa il biologismo. Non si dovrebbe pensare all'uomo come “esistente”, ma come “ex-sistente”, cioè compromesso con il destino della verità dell'essere. “Riguardo al contenuto, Ex-sistenza significa posizione estatica sulla verità dell'essere. Esistenza, al contrario, vuol dire attualità, realtà in opposizione alla pura possibilità concepita come idea. Ex-sistenza designa la determinazione di ciò che l'uomo è nel destino della verità. Esistenza è l'uomo che si dà alla realizzazione di ciò che una cosa è, quando essa appare nella sua idea”.
Heidegger critica Sartre per aver frainteso la frase di Essere e Tempo “l'essenza del Dasein risiede nell'esistenza”, che Sartre interpreta come “l'esistenza precede l'essenza”, dicendo quindi di appoggiare la sua dottrina; Heidegger critica questa interpretazione come metafisica. Per Heidegger quello che si dice in Essere e Tempo è che “l'uomo si realizza in modo tale da essere il “ci” (Da) dell'essere, la luce dell'essere. Questo esser-ci, e solo esso, possiede il tratto fondamentale della ex-sistenza, cioè della non abitazione estatica nella verità dell'essere. L'antiumanesimo di Heidegger si dirigerà così verso una rivendicazione del rifugio dell'essere come unica via per la quale è possibile elevare la dignità dell'uomo, vale a dire l'Humanitas dell'homo. Egli denuncerà il pericolo che minaccia l'essenza dell'uomo se questa viene pensata nella dimenticanza dell'essere. Heidegger pretenderà un pensare più originale, più essenziale: un pensiero che dovrebbe collocare l'umanità dell'uomo in prossimità del sacro. “Il sacro, unico spazio essenziale della divinità che, a sua volta, apre una sola dimensione per gli dei e per il dio, non appare fino a quando, al termine di una lunga preparazione, l'essere si è illuminato esso stesso ed è stato sperimentato nella sua verità. Solo così, a partire dall'essere, si potrà ricostruire questa assenza di patria nella quale si perdono non solo gli uomini, ma l'essenza stessa dell'uomo”.
Dinnanzi a ciò, s'impone la domanda: cosa è essere? Questione alla quale è piuttosto complesso rispondere; bisognerebbe costruire un ponte con ciò che sosteneva Nietzsche riguardo al nichilismo con la frase: Dio è morto. La prima cosa che si potrebbe supporre davanti a questa frase è che essa corrisponde all'opinione dell'ateo e che, di conseguenza, rappresenta solo una posizione personale e perciò unilaterale e anche facilmente confutabile. Tuttavia, dobbiamo considerare che la frase allude piuttosto al destino di due millenni di storia dell'occidente. Nietzsche scrisse per la prima volta la frase “Dio è morto” nel terzo libro de La Gaia Scienza, anche se aveva accarezzato l'idea della morte di un dio o quella dell'estinzione degli dei in alcuni appunti della sua prima opera La Nascita della Tragedia: “Credo nell'antica massima germanica: tutti gli dei devono morire”.
Nel quinto capitolo de La Gaia Scienza Nietzsche dice: “Il più grande degli avvenimenti moderni (che Dio è morto, che la credenza nel Dio cristiano si è convertita in incredulità), ha già cominciato a proiettare le sue prime ombre sull'Europa”. E' chiaro che per Nietzsche il nome di Dio e del Dio cristiano vengono impiegati per designare il mondo soprannaturale. Dio è il nome del dominio delle idee e degli ideali. Questo dominio viene considerato, a partire dall'ultima epoca greca e dall'interpretazione cristiana della filosofia platonica, come il vero mondo, il mondo reale propriamente detto. A differenza di esso, il mondo sensibile è solo il mondo di questa vita, quello mutevole e, di conseguenza, apparente, irreale. Il mondo di questa vita è la valle di lacrime, a differenza del Monte della beatitudine eterna nell'altra vita.
Quindi, se Dio come fondamento sovrasensibile e come fine di tutto il reale è morto, se il mondo sovrasensibile delle idee ha perso la forza dell'obbligatorietà e, soprattutto, la forza risvegliatrice e costruttiva, non resta ormai più nulla a cui l'uomo possa attenersi, grazie al quale guidarsi. Il nulla si allarga; ciò sta a significare la mancanza di un mondo sovrasensibile, avente carattere di obbligatorietà. “Il nichilismo, il più inquietante di tutti gli ospiti, suona alla porta”. Non tutti quelli che invocano la loro fede cristiana o una qualsiasi convinzione metafisica si trovano, per questo, fuori del nichilismo. E, viceversa, nemmeno tutti coloro che si incapricciano con il nulla e la sua essenza sono nichilisti.
Allora il nichilismo è un movimento storico, non una qualunque opinione o dottrina sostenuta da un soggetto particolare. Il nichilismo muove la storia alla stregua di un processo fondamentale, scarsamente conosciuto, nel destino dei popoli occidentali; non è solo un fenomeno storico tra gli altri, non è una corrente spirituale che si presenta nella storia dell'occidente dopo cristianesimo, umanesimo e illuminismo. Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è invece il movimento fondamentale della storia dell'occidente. E' il movimento storico universale dei popoli della Terra, lanciati verso lo spazio di potere dell'Età Moderna.
Quindi la frase Dio è morto non ha a che vedere con il Dio cristiano della rivelazione biblica. Per Nietzsche vuol dire un fenomeno storico, politico-mondano, del cristianesimo e delle sue ansie di potere all'interno della mentalità occidentale e della sua cultura moderna. In luogo della scomparsa autorità di Dio e del magistero della Chiesa, appare l'autorità della coscienza, si impone l'autorità della ragione. Contro questa si solleva l'istinto sociale. La fuga verso il sovrasensibile è sostituita dal progresso storico. Il culto della religione è sostituito dall'entusiasmo per la creazione di una cultura o per la diffusione di una civiltà. L'essere creatore, proprio del Dio biblico, diventa segno di distinzione del fare umano. Questo creare finisce per appartenere agli affari. Di conseguenza, l'incredulità, nel senso di deviazione dalla dottrina cristiana della fede, non è mai la causa, ma la conseguenza del nichilismo, sebbene potrebbe essere che il cristianesimo stesso costituisca una conseguenza e una deformazione del nichilismo.
Cosa significa nichilismo? Nietzsche risponde: “i valori supremi vengono sovvertiti”. Quindi una svalutazione progressiva dei valori supremi precedenti. Il carattere obbligatorio dei valori supremi vacilla. Ma bisogna comprendere che per Nietzsche il nichilismo non è un semplice fenomeno di decadenza; esso è soprattutto la legalità della storia, vale a dire uno dei momenti della storia dell'Occidente. Nietsche riconosce che, con la svalutazione di quelli che fino ad oggi sono stati i valori supremi, il mondo continua ad essere lo stesso mondo e, prima di tutto, il mondo che è rimasto senza valori e che deve ineluttabilmente procedere verso una nuova scala di valori. Questa nuova scala di valori si trasforma (dopo che quelli fino ad oggi considerati supremi, son divenuti caduchi). Ma questi nuovi valori sono un'altra manifestazione del nichilismo. Questa fase decisiva del nichilismo è quella che Nietzsche qualifica come “nichilismo perfetto”, ossia il nichilismo classico. Uno dei suoi esponenti è Schopenhauer, con il suo pessimismo. “La vita non vale la pena di essere vissuta ed affermata. La vita e tutto l'esistente come tale, deve essere negato”.
Ora, se Dio è scomparso dal suo luogo nel mondo sovrasensibile, resta sempre il luogo, anche se vuoto. Lo spazio vuoto del sovrasensibile e del mondo ideale può ancora essere mantenuto. Questo luogo vuoto ci invita ad occuparlo di nuovo ed a sostituire il dio scomparso con un altro. Si erigono nuovi ideali; questo accade mediante la dottrina della redenzione universale e del socialismo. In tal modo nasce il “nichilismo incompleto”. Tuttavia, i tentativi di fuggire dal nichilismo, senza però tornare ai valori precedenti, provocano l'effetto contrario, acutizzano il problema. Il “nichilismo perfetto” deve arrivare fino all'eliminazione del luogo stesso dei valori, il sovrasensibile come dominio; di conseguenza, esso deve collocare i valori da qualche altra parte e sovvertirli. Tale sovversione si trasforma in inversione: inversione del genere e del modo dell'avvalorare. L'affermazione di valori ha bisogno di un nuovo principio dal quale partire ed al quale attenersi. Questo principio non può più essere rappresentato dal mondo sovrasensibile, che ormai è divenuto inerte. Perciò, il nichilismo che aspiri ad una sovversione così estesa, cercherà tra ciò che vi è di più vivo. Il nichilismo si trasformerà in tal modo in “idea della vita pletorica”. Per comprendere meglio questo punto, bisogna indagare su quello che Nietzsche intende per valore. L'essenza del valore poggia sull'essere un punto di vista. Il valore allude a ciò che salta agli occhi, perciò esso sta in relazione con un quanto, con un numero, è relazionato ad una scala di numeri e di misure. Il valore vale tanto di più quanto più lo si ubica come ciò che ha importanza. Nietzsche vuol far vedere che i valori come punti di vista sono essenziali e, di conseguenza, rappresentano sempre, a seconda del momento, condizioni di conservazione e di aumento. Questi aspetti caratterizzano i tratti essenziali solidali della vita. E' proprio della vita il voler crescere, l'aumentare. Ogni conservazione è al servizio dell'aumento della vita, ma ogni vita che si limita unicamente alla conservazione è già decadenza.
La stabilità dell'essere nella presenza si rivela, già in Essere e Tempo, principalmente come il frutto di una confusione, di una dimenticanza, in quanto deriva dall'intenzione di modellare l'essere secondo il paradigma degli enti, come se esso fosse solo il carattere più generale di quanto si dà nella presenza. Prima di tutto, l'essere non è; che essi sono, è qualcosa che può essere detto solo a proposito degli enti; l'essere piuttosto accade (Ereignis); al dire “essere”, lo distinguiamo dagli enti solo quando lo concepiamo come l'accadere storico-culturale, come lo stabilirsi e il trasformarsi di quegli orizzonti nei quali, successivamente, gli enti diventavano accessibili all'uomo e l'uomo a se stesso. Il vero essere non è, bensì si invia (si mette in cammino e manda), si trasmette.
Heidegger scopre (disvela) il carattere linguistico dell'accadere dell'essere, che si riflette nella concezione dell'essere stesso, il quale, in tal modo, si vede spogliato dei tratti forti che la tradizione metafisica occidentale gli attribuisce. “La nozione heideggeriana di Verwindung o caduta distorsionante, il farsi nuovo per, è l'attitudine del pensiero post-metafisico; questa nozione heideggeriana rappresenta lo sforzo più radicale per concepire l'essere nei termini di un fare atto di presenza, che è sempre, nello stesso tempo, un fare atto di commiato. Il Verwindung è il modo in cui il pensiero pensa la verità dell'essere, inteso come consegna ed evento”. All'essere non si accede per mezzo della presenza, ma solo per il ricordo; l'essere non si può definire come ciò che sta, ma come ciò che trasmette: l'essere è proiezione, destino. Ciò che caratterizza il pensiero post-metafisico è la caducità, la finitezza, la mortalità. L'autentico trascendentale, quello che rende possibile qualsiasi esperienza del mondo, è la caducità; l'essere non è, bensì suc-cede. Ciò che costituisce propriamente il carattere degli oggetti non è il loro stare di fronte a noi, in modo stabile, resistendoci, ma il loro accadere o succedere, vale a dire, il dovere della loro consistenza. Solo un'apertura (o fessura, come si configura in Essere e Tempo), in virtù della decisa anticipazione della morte.
Nelle concezioni della metafisica occidentale questo pensiero forte perde la sua consistenza e non può essere superato mediante un'analisi critica; l'unica possibilità è l'accettazione della caducità dell'accadere storico. L'esistenza si appropria, diviene autentica solo nella misura in cui si lascia espropriare, decidendosi in favore della morte; è unicamente grazie all'evento espropriante e transpropriante, che è poi l'essere stesso come trasmissione di tracce, messaggi e forme linguistiche, che si rende possibile la nostra esperienza del mondo e che le cose giungono ad essere.
Anche se può sembrare un uscir di tema, quello che desidero mostrare è come l'uomo ha cercato di proteggersi dalla caducità, dal timore della morte e dell'assurdo dell'esistenza creando cosmovisioni capaci di orientare i popoli e di dar loro coesione; questo si relaziona con la concezione heideggeriana dell'essere nella misura in cui questa è l'accettazione del non inganno, il comprendere che, senza cadere nel nichilismo nella concezione dell'essere, ciò permette il distacco o l'apertura alla vita all'interno della non permanenza di questa e della possibilità infinita.
E' in questo senso che un'esistenza personale coraggiosa si dà a se stessa e al mondo, trascende il mondo intelleggibile dei significati quotidiani come questo, a sua volta, trascende l'esistenza bruta. Io sono sempre già nel mondo, immerso nelle mie preoccupazioni, occupato dai miei progetti, mentre realizzo le mie possibilità e, sia che io viva autenticamente, sia che lo faccia in modo fittizio, semplicemente in virtù dell'autoproiezione dell'esistenza personale, di questa esistenza come possibilità e non come qualcosa di raggiunto, già sto dando senso all'esistenza, la mia e quella di tutte le cose per le quali trovo un utilizzo, che maneggio, che produco o che trasporto in una prospettiva di interesse.
In tal modo, andando più in là degli esistenti fattici con i quali mi relaziono, più in là dei miei stessi progetti nei quali sono impegnato, io affermo il modo come la totalità di tutti gli esistenti; nello stesso tempo, con il medesimo atto, io affermo me stesso nei confronti di coloro per i quali questo mondo esiste, dal momento che, in principio, sono capace di trovare un luogo per tutti loro nel sistema di usi e significati che costituisco quando vivo e realizzo le mie possibilità. Così io sono suscettibile di essere toccato da tutti gli esistenti del mondo, da ogni interesse, nella mia prospettiva del mondo. Costituendomi e costituendo il mondo, io mi do il compito di portare gli esistenti fattici nel luogo adeguato a loro, nel mio sistema di usi e significati. È all'interno dei limiti del mondo, che costituisco mediante l'atto fondamentale della trascendenza, che io posso suscitare domande intelleggibili e domandare il per-che. L'atto primordiale di trascendenza, grazie al quale costituisco in principio me ed il mondo, è il fondamento di tutti i fondamenti, sia pratici che teorici: è la necessità del mio essere, è la mia libertà.
Questo fondamento di tutti i fondamenti, che mi offre il compito e la possibilità di comprendere tutti, realmente tutti gli esistenti del mondo che afferma, fonda non solo le mie attività economiche (quelle che cercano l'utile sistematicamente) e le speciali prospettive elaborate dalla scienza, ma anche la filosofia, la politica e le arti. Questo dare senso avviene nel contesto storico. Nel corso delle diverse epoche storiche si sono avute diverse forme di soggettivazione dell'esistenza. Osserviamo alcune di queste per chiarire meglio ciò che stiamo dicendo. L'uomo arcaico tenta di opporsi, con tutti i mezzi a sua disposizione, alla storia considerata come una successione di avvenimenti irreversibili, imprevedibili e aventi un loro autonomo valore. Egli si rifiuta di accettarla come storia, senza tuttavia riuscire sempre a scongiurarla. Che cosa significa vivere, per un uomo appartenente alle culture arcaiche? E' vivere daccordo agli archetipi, daccordo ai modelli; è rispettare la legge o i dettami di un essere mitico primordiale. Il grande merito del cristianesimo, rispetto all'antica morale mediterranea, è stato quello di aver attribuito un valore alla sofferenza: l'averla trasformata, da stato negativo, in esperienza spirituale con un contenuto positivo. Gli indù elaborarono presto una concezione della causalità universale, il karma, che dava loro una spiegazione degli avvenimenti e dei patimenti dell'individuo e che, al tempo stesso, spiegava la necessità delle trasmigrazioni (reincarnazioni). Alla luce del karma, le sofferenze non solo trovano un senso, ma acquisiscono anche un valore positivo. Le sofferenze dell'esistenza attuale sono non solo meritate, ma persino benvenute, poichè solo in questo modo è possibile ricordare e liquidare una parte del debito karmico che pesa sull'individuo e che decide il ciclo delle esistenze future.
Il buddismo parte, come lo yoga, dal principio che l'intera esistenza è dolore ed offre la possibilità di superare in modo definitivo la successione ininterrotta di sofferenze nella quale si risolve tutta l'esistenza umana. In sintesi, il dolore umano viene compreso come qualcosa di normale, è l'accettazione del vivere, in qualunque modo lo si interpreti. E' inoltre la speranza che la sofferenza non sia mai definitiva, che la morte è sempre seguita dalla resurrezione, che ogni sconfitta è annullata e superata dalla vittoria finale.
Gli ebrei consideravano ogni nuova calamità storica come un castigo inflitto da Geova, in collera a causa dei loro misfatti. Questi, in tal modo, non solo acquisivano un senso, ma svelavano anche la loro intima coerenza, affermandosi come l'espressione concreta di una stessa e unica volontà divina. Gli avvenimenti sono determinati da una volontà divina. Per la prima volta, può affermarsi ed avanzare l'idea che gli avvenimenti storici abbiano un valore in se stessi, nella misura in cui essi sono determinati dalla volontà di Dio. Perciò è possibile affermare che gli ebrei furono i primi a scoprire il significato della storia come Epifania di Dio. Questa concezione sarà poi ampliata dal cristianesimo.
Sotto la pressione della storia e sostenuta dall'esperienza profetica e messianica, una nuova interpretazione degli avvenimenti storici si apre il passo in seno al popolo di Israele. Contemporaneamente, le popolazioni mesopotamiche sopportavano le sofferenze individuali o collettive come causate dal conflitto tra forze divine e demoniache: un dramma infinito e quindi senza speranza. Il mito del paradiso primordiale, evocato da Platone, è percepibile nelle cerimonie indù, così come tra gli ebrei e nelle tradizioni iraniane e greco-latine. Non è strano che Platone lo riproponesse, data l'influenza di altre culture come quella egizia. Gli stoici tornarono per proprio conto alle speculazioni riferite ai cicli cosmici, insistendo sull'eterna ripetizione, sulla catastrofe con la quale si concludono i cicli cosmici. Col tempo i motivi dell'eterno ritorno e della fine del mondo finiscono per imporsi nella cultura greco-romana. Dal punto di vista dell'eterna ripetizione, gli avvenimenti storici si trasformano in categorie e ritrovano così il regime ontologico che possedevano nell'orizzonte della spiritualità arcaica.
Lo scopo di tale svolgimento era di far capire in che modo l'uomo sopporta la storia. Questo ha portato a collocare un certo destino storico in ogni uomo. Ciò nonostante, si capisce che quello presente è ogni volta più lontano dall'origine, dal centro o punto di partenza; la risposta alla domanda si risolve così: la storia poteva essere sopportata non solo perché essa aveva un senso, ma anche perché era necessaria. La storia era segnata dal mito della catastrofe: potremmo prendere come esempio Roma, con il suo timore di una fine imminente della città, timore che era stato ricevuto nel momento della fondazione della città.
È Sant'Agostino che si sforza di dimostrare che nessuno può conoscere l'istante in cui Dio deciderà di porre fine alla storia. Il pensiero cristiano tendeva così a superare definitivamente i vecchi temi dell'eterna ripetizione, dell'esperienza della fede e del valore della personalità umana. Lo sviluppo della storia viene così visto come necessario ed orientato da un unico fatto, come radicalmente singolare e, di conseguenza, come destino dell'umanità. E' una “concezione lineare” della storia abbozzata nel secolo III ad opera di Ireneo da Lione, ripresa da San Basilio, da San Gregorio ed infine da Sant'Agostino. Nel Medio Evo primeggia la concezione escatologica con i suoi due momenti: la creazione e la fine del mondo; qualsiasi avvenimento naturale faceva pensare alla fine dei tempi.
In Hegel vediamo non solo una filosofia, ma anche una religione ed una mistica. Faremo una relazione tra Hegel e Spinoza, cominciando dal fatto che Hegel nutriva una speciale ammirazione per la filosofia di Spinoza. Hegel considerava la filosofia di Spinoza come insufficiente e crediamo che si sentisse tentato dal voler fare una ripresa critica ed arricchita della filosofia di Spinoza.
Vanno tuttavia sottolineate alcune differenze tra i due. Per Hegel l'incompletezza della filosofia di Spinoza sta nel fatto che questi vuole vedere l'eterno senza accorgersi che anche il momento è, a modo suo, eterno. Hegel, invece, aspirando senza tregua all'eternità, è perfettamente cosciente che nessuna filosofia può limitarsi ad essa; l'eternità di Hegel non è, come quella di Spinoza, qualcosa che porta il tempo dentro di sé, sospeso e come “assorbito”. Spinoza cerca la beatitudine, che è assenza di passione, libertà piena, vita conforme alla ragione e allo spirito; Spinoza vuole vivere per la verità, mentre Hegel aspira a scoprire in cosa consiste e come si realizza quella piena ed indiscutibile verità che è il vivere.
Spinoza cominciò ad intravvedere, alla fine della sua profonda religione filosofica, un'essenza che è al tempo stesso un'esistenza, uno spirito che è anche vita palpitante. Perciò Hegel affermò che in Spinoza qualcosa resta in piedi in mezzo alle rovine di tutta la filosofia. L'eterno ritorno di Hegel è il risultato di questa ricercata unione della verità con la vita, del perituro e del contingente con l'immortale ed il necessario. E' in questa unione, il cui frutto finale si chiama Ideale, che la filosofia di Hegel acquisisce il suo carattere più preciso. Feuerbach disse una volta che in tutto il pensiero di Hegel aleggiava il fantasma della teologia. Ma sarebbe più esatto dire che tutto il pensiero di Hegel è, in fondo, teologia. L'Idea, principio, nodo e soluzione della tragedia filosofica hegeliana, non è altro che, come dichiara Hegel pubblicamente, lo sviluppo della divinità. Si può dire che quello che Hegel chiama Idea è, certamente, l'aspetto metafisico di quello che il religioso chiama Dio, ma ciò che l'Idea proietta, la natura e lo spirito, solo in un certo senso sono divini. La divinità del mondo e di ciò che è finito si radica unicamente nella sua aspirazione alla rionciliazione con la realtà assoluta dell'Idea, nella sua tendenza a salvarsi dalla propria finitudine e contingenza, nel suo sforzo di perpetuazione di sé. Nel suo intricato gioco, con cui l'Idea gioca con se stessa, si creano conflitti per avere il gusto di risolverli. È necessario domandarci per-che l'Idea ha bisogno di crearsi questi innumerevoli conflitti. Questo è, in altre parole, domandarci per-che Dio, che non aveva necessità del mondo, ha creato il mondo e vuole poi purificarlo. L'Idea ebbe coscienza di non essere sufficiente a se stessa o, se si vuole, che la sua verità era una mezza verità, che la sua vita terminava presto e con essa l'inalterata identità del suo essere.
Una filosofia non hegeliana può rispondere che Dio ha creato il mondo per amore o per la sua liberissima ed imperscrutabile volontà di crearlo. Ma una filosofia come quella di Hegel non può rispondere in un modo tanto arbitrario, o tanto caritatevole. Per Hegel è qualcosa di necessario, e questa necessità non è altro che l'insufficienza dell'Idea primitiva, l'urgenza dell'Idea tende ad uscire da se stessa, per vedere se, al di fuori di essa che è in se stessa, c'è qualcosa che possa compiacerla. E ciò che trova è il contrario di sé, l'Idea si aliena, si pone fuori di sé e perde la sua primitiva prudenza. Non è più quieta e pacifica in se stessa, con gli occhi chiusi di fronte alla malvagità, alla colpa e all'errore. La bontà dell'Idea è che non si è incontrata col male e, pertanto, non ha potuto né soccombere ad esso, né vincerlo. Quindi, solo colui che ha vissuto in mezzo all'errore a alla colpa, solo colui che ha avuto l'esperienza del male, cioè solo colui che è diventato pazzo può essere, alla fine, quando è ritornato in se stesso, definitivamente e pienamente assennato. Così l'Idea è tutto meno che puritana, poichè vuole sperimentare tutto, vuole creare ogni sorta di conflitti, poichè solamente così raggiungerà la sua piena verità. Questa alienazione, come dicevamo, inizia sul terreno della logica. L'Idea comincia ad impazzire all'interno della sua assennatezza e nella sua strana demenza dall'essere al nulla, dall'uno al molteplice, dalla qualità alla quantità, dall'essenza al fenomeno, cercando sempre ciò che, annullando quello che nega, possa allo stesso tempo conservarlo.
Abbiamo parlato della storia lineare; adesso la possiamo mettere in relazione con la metafisica occidentale, figlia di queste concezioni, da cui si crearono i “meta-racconti” più adeguati al potere vigente, al fine di dare coesione ai popoli, inizialmente isolati e successivamente uniti sotto il concetto di modernità; attualmente si parla di globalizzazione. Ma queste concezioni metafisiche generate dal mondo greco e riattivate nel Rinascimento sono entrate in declino, l'essere si è svelato nella sua essenza, la caducità. Questo fenomeno fu mostrato con chiarezza da Nietzsche nella sua analisi del nichilismo e, più tardi, dal pensiero di Heidegger, che abbiamo descritto in relazione al concetto di tempo volgare.
Heidegger, in Essere e Tempo, si occupa del problema della storia; inizialmente è interessato a precisare i diversi significati della storia. Un primo senso della storia è quello che la relaziona al passato. È semplicemente l'uso generale del termine, non relazionato alla scienza della storia; qui la storia nomina il passato ma, ciò nonostante esso è ancora attivo. Un secondo termine designa la storia non tanto come “il passato”, come sopra esposto, quanto piuttosto la provenienza del passato. Ciò che “ha una storia” entra nella continuità di un divenire. L' “evoluzione” in questo caso è già un'ascesa, è già una decadenza. Un terzo termine dà il significato alla storia come il tutto degli enti che mutano nel tempo. Le mutazioni ed il destino degli esseri umani, dei gruppi umani e della loro cultura, a differenza della natura, che si muove sempre uguale nel tempo. Infine, si definisce storico ciò che è tradizionale in quanto tale, sia che venga conosciuto storiograficamente, o che sia ricevuto come comprensibile per se stesso e di provenienza occulta.
Se raccogliamo i quattro significati menzionati in uno solo, il risultato è questo: storia è quello specifico gestirsi dell'esser-ci esistente che avviene nel tempo, ma in modo tale che come storia vale in senso preferenziale il gestirsi passato, ma anche tradizionale e anche attivo, tutto nell'essere l'uno con l'altro. Queste concezioni partono dal presupposto che l'esser-ci non è intrinsecamente temporale e, per un altro verso, parte anche dal primato del passato all'interno del concetto di storia. Ma cos'è il passato? Non è altro che il mondo nel quale coloro che appartenevano ad un centro di utili che facevano fronte a qualcosa di raggiungibile e risultavano usati da un esser-ci che era nel mondo liberandosi-da. Il mondo è ciò che ormai non è più. Ma il tempo che fu è tuttora vigente all'interno del mondo, davanti agli occhi. Palesemente l'esser-ci non può mai essere passato, non perché non possa passare, ma perché, per sua essenza, non può mai essere “davanti agli occhi”, bensì, se è, esiste. Un esser-ci non più esistente, in un rigoroso senso ontologico passato, non è altro che stato-ci. Al dire stato-ci, significa che è storico, temporale, corrispondente ad un mondo determinato e non, semplicemente, che fu. Le concezioni storiche, quindi, sono strettamente relazionate al momento nel quale si producono i discorsi, come direbbe Foucault. I discorsi sono conformati da saperi e da poteri; fra i saperi possiamo evidenziare le scienze e la filosofia, in quanto saperi specializzati che legittimano poteri che, a loro volta, manipolano gli esseri umano. La storia è uno di questi saperi in quanto storiografia o teoria del processo storico.
Per Heidegger, gli “Umanesimi” hanno una radice metafisica, che ha determinato il loro impoverimento e la loro perdita di significato. Egli propone quindi una esperienza più originale dell'essenza dell'uomo. Gli umanesimi tradizionali hanno fallito nel loro obbiettivo; l'uomo moderno si sente alienato, senza casa, senza patria. Questa alienazione deve essere pensata come lontananza dall'Essere. Un riavvicinamento all'Essere dimenticato è dunque l'unica via possibile per fare uscire l'uomo dalla situazione di estraneità in cui si trova. In questo avvicinamento c'è il Destino dell'Occidente.
“L'Occidente non è da pensare regionalmente nella sua distinzione dall'Oriente, né semplicemente come Europa, ma, dal punto di vista della storia del mondo, - deve essere pensato - nella sua vicinanza all'origine prima. La patria di questa abitazione storica è la vicinanza dell'essere. In questa vicinanza, e non altrove, potrà aver luogo anche la decisione se e come Dio e gli dei son venuti a mancare e resta la notte, se e come già albeggia il nuovo giorno del sacro, se e come col sorgere del sacro possano cominciare di nuovo a farsi vedere Dio e gli dei. Ma il sacro, che è soltanto lo spazio essenziale della divinità, che sola a sua volta assicura la dimensione per gli dei e per Dio, il sacro può mostrarsi, poi, solo se prima, e in lunga preparazione, l'essere stesso è venuto a tralucere, ed è sperimentato nella sua verità. Soltanto così può cominciare un superamento di quel trovarsi senza patria, in cui non soltanto gli uomini, ma l'essenza dell'uomo sta vagando”. (Citato da Salvatore Puledda nel suo testo: “Interpretazioni dell'umanesimo”; Heidegger e la critica all'umanesimo metafisico).
Ciò che Heidegger propone ci mette di fronte ad interrogativi e a cammini da esplorare. È pertinente a questo punto un dialogo che ho avuto con Silo nel mese di luglio del '95 a Bogotà. Ne riporto alcuni brani che credo ci possano orientare e gettare luce su un possibile cammino per il vagare dell'essenza dell'uomo.
Per Silo (in quel dialogo) ”… l'uomo è un destino, una forza poderosa che cerca di compiersi nell'umano; l'umano è l'opportunità di portare a compimento quel destino. Quel destino è proprio l'unione delle soggettività degli esseri umani, che vanno in una direzione che trascende ciò che è meramente personale e meramente epocale”. Domandai: cos'è l'umano? E mi rispose: “è un transito di 'dio' ”. Quindi, con riferimento al tema di Dio, menzionò Heidegger quando espone il tema dell'essere e degli enti. “Ciò che si percepisce - disse - sono gli enti, le fatticità che stanno lì davanti; l'essere è il fondamento degli enti, ciò che da senso agli enti, ma per captare l'essere bisogna far si che gli enti facciano silenzio, bisogna far silenzio… É nel silenzio è che si manifesta l'essere”2). Poi proseguimmo con altre questioni3). E, più tardi, commentò la relazione fra l'“esistenza” e il destino dell'umanità. 4)
Credo di poter interpretare la proposta di Heidegger attraverso questa linea di pensiero; d'altra parte l'umanesimo universalista è un passo più avanti del semplice umanesimo, poichè unisce correnti apparentemente divergenti. Questo potrebbe essere interpretato come un forte accento religioso, peraltro innegabile; si dovrebbe comunque chiarire il senso ampio in cui si sta utilizzando il termine. Heidegger ne parla e dice che è necessario che il pensiero riconosca la sua occupazione nel pensare l'essere. Poichè, in definitiva, l'essere è legato ad ogni ente in quanto è; e all'esistenza in quanto bisogna comprenderlo. Questo legame è la religio, la religione dell'essere nell'esistenza umana; questa sarebbe la possibile base con fondamento di ogni religione e di ogni conoscenza di Dio.
Questo che sto affermando viene ribadito da Gregory Bateson: “È ormai tempo di invertire la tendenza che, fin da Copernico, si è occupata di far scendere dal piedistallo la mitologia e di cominciare a raccogliere molti elementi epistemologici della religione che sono stati lasciati da parte” 5). Per Bateson la religione non consiste nel riconoscere piccoli miracoli (come quelli che ogni leader religioso fa in modo di non offrire anche se i suoi discepoli insisteranno sempre affinchè lo faccia), la religione è un vasto insieme organizzato, che possiede caratteristiche mentali immanenti.
Heidegger, a sua volta, se ne occupa in vari scritti, uno dei quali è “Abitare, costruire, pensare”. In questo testo il filosofo riflette sull'abitare. “Il modo in cui tu sei e io sono, la maniera secondo cui siamo noi uomini sulla terra, è l'abitare (Buan)”. Esattamente da questa concezione partono le correnti filosofico-ecologiche che considerano l'ecologia non semplicemente come ambiente, ma anche il sociale ed il soggetivo come forme di abitare dell'essere umano. Tutte le costruzioni hanno in se' il senso dell'abitare o dare senso a… “Non si sperimenta l'abitare come l'essere dell'uomo; l'abitare non è mai assolutamente pensato come il modo fondamentale dell'essere-uomo”. Ma in che consiste l'essenza dell'abitare? Il modo fondamentale dell'abitare è proteggere la dimora dei mortali sulla Terra. Ma “sulla Terra” vuol dire “sotto il cielo”. Entrambe le espressioni menzionano anche il “permanere di fronte ai divini” e includono un “appartenendo alla comunità degli uomini”.
I mortali abitano in quanto salvano la Terra; salvare significa proprio: liberare qualcosa nella sua stessa essenza. Salvare la Terra è di più che trarne profitto o lavorarla eccessivamente. I mortali abitano in quanto accolgono il cielo in quanto cielo. I mortali abitano in quanto aspettano i Divini: i messaggeri che segnalano la divinità. “Dal sacro loro imperare appare il Dio nel suo presente o si ritira nel suo mascheramento”. I mortali abitano in quanto alla loro essenza, che vuol dire avere il potere della morte in quanto morte, e la conducono verso l'uso di quel potere affinchè sia una buona morte. Proteggere significa custodire il quadrante: la terra, il cielo, i divini e i mortali nella loro essenza. L'abitare è sempre una dimora assieme alle cose; la dimora assieme alle cose è l'unico modo in cui si realizza unitariamente, in tutti i casi, la quadruplice dimora nel quadrante. L'abitare protegge il quadrante, portando la sua essenza alle cose.
Il concetto di essere per Heidegger è quello di un essere spossessato, senza possibilità di attaccarsi o di uniformarsi; l'essere è evento, è un occultarsi e un disoccultarsi permanentemente; così si potrebbe affermare che non esiste verità assoluta; la verità non bisogna scoprirla, bisogna produrla e svilupparla; la verità è figlia della sua epoca e delle sue circostanze; con questo non si sta cadendo nello scetticismo, si sta invece attenuando una tradizione che ha già fatto abbastanza danni all'essere umano; l'uso di meta-racconti per esercitare il potere e il dominio sui popoli. Non solo, il concetto di verità in Heidegger è proprio un liberarsi dai ferrei inquadramenti della tradizione occidentale. Osserviamo un poco questa prospettiva, come argomento opposto ai fondamentalismi o agli assolutismi di qualsiasi specie.
Nel testo “L'essenza della verità”, Heidegger si occupa di riflettere sulla tradizione occidentale riferita alla verità. Ciò che è vero è reale; Cosa significa? Significa coincidenza con ciò che pensiamo, una concordanza; essere vero, quindi, è uguale a concordanza. Nel Medio Evo la verità è l'adeguamento della cosa alla conoscenza. Questo allude alla teologia cristiana, secondo la quale le cose sono in quanto create. L'intendimento concorda con l'idea solo nel caso in cui realizzi il suo proposito di adeguare il pensiero alla cosa, cioè al piano Divino. Ma chi concorda è l'uomo, e questi sbaglia: così come c'è verità c'è anche non verità; questa concezione è simile a quella greca: la verità è la coincidenza di un enunciato con la cosa.
Ma come si adeguano cosa e significato? In base al modo di quella relazione che impera tra enunciato e cosa; ora, l'enunciato rappresenta la cosa. La relazione dell'enunciato rappresenta la cosa, l'adempimento del riferimento originale, che si orienta verso ciò che è evidente; la presenza è l'ente, che è ciò che risulta rappresentabile nell'enunciato, il dire come è; è un comportamento aperto che si regge per mezzo del “come?”. La verità quindi non sorge originalmente nella contrapposizione. Ma qual'è il fondamento della possibilità intrinseca del comportamento aperto che si dà prima di una dimensione di riferimento?
Da dove sorge la corrispondenza fra enunciato e cosa? Solo se questo dono previo si è liberato all'aperto per l'evidenza che da lì impera e che collega tutto il rappresentare; il liberarsi è una direzione che collega e questo è possibile solo come essere libero per l'evidenza dell'aperto. Questo essere libero è l'essenza della libertà e l'apertura del comportamento come possibilità interna dell'esattezza si fonda sulla libertà. Così, quindi, l'essenza della verità è la libertà; la libertà è ciò che rende possibile la verità. La verità si riduce alla soggettività del soggetto umano.
Anche se questo soggetto raggiungesse una oggettività, questa continuerebbe ad essere umana assieme alla soggettività e alla disposizione dell'uomo. Ordunque, la connessione essenziale fra verità e libertà ci porta alla domanda sull'essenza dell'uomo; cadiamo così nel problema della libertà che è lasciare essere l'ente, la rinuncia all'indifferenza e alla sottomissione; è un impegnarsi con l'ente, comprendere ciò che è aperto e la sua apertura, disoccultare e svelare, ciò che i greci chiamavano aleteia. L'essenza della libertà vista dall'essenza della verità, si mostra come esposizione nello svelare l'ente. L'apertura di ciò che è aperto, il “ci” o l'esistenza che possiede una storia; l'uomo è il modo della sua esistenza e la storia come possibilità essenziale; allora la verità è nell'essenza della libertà e anche la non verità viene dall'essenza della verità.
L'essenza della verità si scopre come libertà, disposizione a, che è in diretta relazione con il temperamento d'animo o emozione, non come vissuto particolare, ma dell'ente nella sua totalità. Ma questa domanda sull'ente nella sua totalità, ossia sul suo senso (l'essere), è rimasta nell'oblio: s'è prodotto un occultamento. Quando si parla di non verità, è una non rivelazione più antica della rivelazione di qualunque ente. L'occultamento dell'occulto è il mistero che governa il “ci” dell'uomo; l'autentica non essenza della verità è il mistero, la caduta all'essenza nel senso universale e del suo fondamento. Così, dunque, la libertà si apre all'essere, non si chiude; l'oblio dell'essere presta una propria presenza all'apparente scomparsa di ciò che è dimenticato. L'affaccendarsi dell'uomo che lo allontana dal mistero verso il corrente, va da una cosa abituale ad una più vicina e passa lontano assieme al mistero, è proprio questo l'errare che scorre a fianco dell'uomo come un fossato, ma questo è parte della costituzione del Dasein. L'errore non è una mancanza isolata, bensì il dominio della storia (oblio).
Tale critica sul problema della verità è ereditata da Nietzsche: “La verità ed il suo regno originale ha avuto la sua storia nella storia. La genealogia non pretende di riprendere il tempo per ristabilire una grande continuità più in là della dispersione dell'oblio; il suo compito non è quello di mostrare che il passato c'è ancora, vivo nel presente, ad animarlo ancora segretamente, dopo aver imposto a tutti gli ostacoli lungo il cammino una forma tracciata fin dal principio; è scoprire che all'origine di ciò che conosciamo e di ciò che siamo, non c'è l'essere né la verità, ma l'esteriorità dell'incidente” 6). In definitiva, si tratta di liberarsi dell'assurdo peso storico e scoprire l'allegria del sorriso.
La radice del problema, dal punto di vista psicologico, sta nel possesso. Il possesso sorge esattamente con l'appropriazione di cose, persone, idee. ecc.; le cose sorgono quando si ascrivono agli oggetti, come proprietà ad essi intrinseche, le azioni con le quali li generiamo come parte della convivenza. Così ci appropriamo degli oggetti con la speranza di appropriarci delle loro proprietà e, pertanto, delle azioni umane che esse implicano. Succede lo stesso con la verità; la verità è divenuta una cosa e vogliamo afferrarla dandole la forma di principio trascendente e così possederla e sentire che abbiamo un punto fermo dal quale nessuno ci può muovere.
Per sostenere quanto sto cercando di esprimere, userò una espressione del cileno Humberto Maturana, che dice: “Tutte le guerre hanno a che vedere con il possesso della verità che giustifica la negazione dell'altro, anche le guerre che cercano di ristabilire la giustizia. Non è la malvagità umana che genera la guerra, è il possesso della verità ad aprire uno spazio alla malvagità come modo di vivere. Non è la malvagità occasionale o il crimine circostanziale che mi preoccupa. È la malvagità istituzionalizzata in difesa della verità, l'alienazione distruttiva. È la ricerca di una società perfetta, l'alienazione che porta alla tirannia e alla guerra, perché ogni ricerca della perfezione sociale parte dall'alienazione per il possesso della verità. Ma per chi non riesca a vedere cè solo un cammino: il cambiamento interno che distende l'attaccamento, lascia andare la verità e permette di riconoscere che abbiamo solo il mondo che creiamo con gli altri. La cosa difficile è lasciare andare la verità e accettare la comprensione, lasciare le cose e accettare i processi che danno loro esistenza, questo passo è sempre un passo individuale. Non si tratta di distruggere il mondo che abbiamo per catapultarci in uno ideale, si tratta di sommergere il mondo che abbiamo nella comprensione che lo abbiamo solo con l'altro e che è solo a partire dalla convivenza che la ragione ha valore. Dove la verità ci perde, l'amore ci salva, poichè ci fa umani ampliando il nostro vivere all'ambito della coesistenza”. (Il senso dell'Umano).
Tutto questo giro attorno alla verità e alla concezione dell'essere è per rendersi conto dei cammini dell'umanesimo universalista. Abbiamo parlato dell'umanesimo universalista senza definirlo. Bisognerebbe prima di tutto ubicare l'umanesimo universalista in relazione a quanto esposto sopra e riflettere sulla sua fattibilità sia nel contesto teorico, come insieme di idee, sia come prassi sociale. Per cominciare e per non perdersi, bisogna affermare che non è una filosofia, ma un'attitudine di fronte alla vita. Cosicché non si può ridurre questo aspetto al solo Occidente, potendo rintracciare questo universalismo nelle diverse culture, come è stato ben dimostrato nelle ricerche del Centro Mondiale di Studi Umanisti. Questo permette di aprire il dialogo con altre culture, per quanto diverse siano. Questa posizione, che definisce come umanista qualunque persona che lotta contro la discriminazione e la violenza, proponendo soluzioni affinché si manifesti la libertà di scelta dell'essere umano, ci porta a considerare una sensibilità, un modo di vivere la relazione con gli altri esseri umani e una posizione di fronte al mondo. Nell'atteggiamento umanista, che è la posizione comune degli umanisti delle diverse culture, si denotano le seguenti caratteristiche: 1, ubicazione dell'essere umano come fonte di ogni valore e preoccupazione centrale; 2, affermazione dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani; 3, riconoscimento della diversità personale e culturale; 4, tendenza allo sviluppo della conoscenza al di sopra di quanto è accettato come verità assoluta; 5, affermazione della libertà di idee e di credenze; 6, rifiuto della violenza in tutte le sue espressioni.
Questo umanesimo è il progetto di una mano tesa, di una coerenza ogni volta più impegnata e con un senso ecumenico di possibilità aperte e di orecchi attenti ai differenti suggerimenti di molte persone e gruppi, che si dirigono con buone intenzioni verso il miglioramento della condizione umana. L'umanesimo universalista non è il migliore né il peggiore, giacchè non c'è né meglio né peggio, è una alternativa di trasformazione che vuole la molteplicità di etnie, culture, idee, aspirazioni, credenze, religioni, ecc…
Bisogna anche tener conto che questo termine “umanesimo universalista” entra in uso recentemente e richiede una riflessione più profonda sul suo significato, tanto nella teoria quanto nella pratica; d'altro canto non è una cosa terminata, ma in costruzione, come abbiamo spiegato fin qui; se fosse terminato sarebbe qualcosa di morto. Non credo sia strampalato relazionare l'umanesimo universalista con la concezione dell'essere in Heidegger, come ho esposto sopra. Malgrado ciò, Heidegger, come qualsiasi altro filosofo, persona o dottrina, non ha l'ultima parola su nulla, pertanto esiste sempre la possibilità di migliorare e di creare strade alternative che rendano possibile una migliore convivenza nel pianeta.
Per spiegare quello che voglio dire farò due giri, passando per il campo della biologia e dell'“ecologia”. Gli esseri umani sono determinati dalla loro struttura; cos'é l'accoppiamento strutturale? Vediamo, ogni essere vivente é determinato dalla sua struttura: vive in un ambiente; questo ambiente é condizione di esistenza ed anche di complementarietà. Questo ambiente ha una parte in cui si distingue un sistema che è operativamente complementare, la cosiddetta “nicchia”. L'esistenza di un sistema determinato dalla sua struttura involucra un accoppiamento strutturale e la conservazione di questo attraverso tutti i cambiamenti di stato. Ciò che cambia nella relazione sistema-ambiente, nella sua struttura, è la sua “nicchia”. Vivere è quindi spostarsi nella realizzazione di una “nicchia' . L'umano, a differenza degli animali, ha dato senso a tre aspetti del suo vivere: l'ambiente, il sociale e il soggettivo. Nella situazione attuale questi aspetti risultano compromessi e, per contro, le soluzioni dei poteri internazionali sono ogni volta più infantili.
La domanda consiste nel sapere in che modo si vivrà in futuro su questo pianeta. Si sta prospettando la necessità di un reale impegno riguardo ai problemi attuali, per generare azioni concrete riferite ai conflitti. I fenomeni di disintegrazione sono ogni volta più evidenti. Unicamente il riorientamento degli obiettivi di produzione dei beni materiali ed immateriali è la soluzione, però questo grazie ad una rivoluzione politica, sociale e culturale, mediante un ridimensionamento della soggettività. Cercare di definire ciò che è la soggettività non è compito facile, ciononostante userò una definizione che mi sembra appropriata; è di Felix Guattari, dal suo testo “Soggettività per il meglio e per il peggio”: “la definizione provvisoria più inglobante che io proporrei della soggettività è: l'insieme delle condizioni che rendono possibile che istanze individuali e/o collettive possano emergere come territorio esistenziale suo referenziale, in adiacenza o in relazione di delimitazione con una alterità che è essa stessa soggettiva”.
So che non è semplice questa definizione, però è un tentativo di fami capire. Così si parlerebbe di produzione di soggettività, soggettività che é polifonica, sempre con possibilità di trasformazione, di ampliamento, di complessificazione. “Allo stesso modo dei cristiani che hanno inventato una nuova formula della soggettivazione, o la cavalleria cortese, o il romanticismo, o il bolscevismo, le diverse sette freudiane hanno secreto un nuovo modo di sentire, di vivere, di produrre l'isteria, la nevrosi infantile, la psicosi, la conflittualità familiare”; così pure emergono nuove forme di sensibilità o di soggettivazione dei diversi problemi umani. Una forma di soggettivarsi che dà alternative è esattamente quella propone il Movimento Umanista, che si dice erede diretto dell'Umanesimo universalista. Le posizioni dualiste tradizionali che hanno guidato il pensiero sociale e le forme di orientamento nella convivenza sono caduche. Tanto nell'individualità quanto nella collettività, si cerca di raggiungere forme di produzione della soggettività che vadano nella direzione di una risingolarizzazione individuale e/o collettiva, piuttosto che una produzione massificata, sinonimo di angustia e disperazione. Nel campo sociale bisognerà sviluppare pratiche specifiche che tendano a modificare e a rivendicare le forme di essere in seno alla coppia, in seno alla famiglia, nel contesto urbano, nel lavoro, ecc. Ricostruire l'insieme delle modalità dell'essere-in-gruppo. Questo mediante cambiamenti esistenziali che hanno come obiettivo l'essenza della soggettività polifonica. Nella soggettività bisognerà rivendicare la relazione del soggetto con il suo corpo, la finitudine del tempo, i misteri della vita e della morte. Non si può più parlare di soggetto come fa la modernità, ora bisognerà parlare di componenti di soggettivazione che sono multifonici. Bisognerà quindi esaminare la relazione tra individuo e soggettività. Questo ci mostra ormai che si tratta di due concetti differenti, sebbene interdipendenti. La cosiddetta interiorità, ogni volta più screditata, si instaura all'incrocio di molteplici componenti della soggettività, relativamente autonomi, gli uni in relazione con gli altri, in alcuni casi discordanti.
Le relazioni dell'umanità con il sociale, con lo psicologico e con la “natura” tendono a deteriorarsi sempre di più per la passività fatalista degli individui e dei poteri rispetto a questi argomenti considerati nel loro insieme. Non si possono separare questi tre aspetti: l'ambiente, il sociale e il soggettivo. Per Guattari è l'ecologia che non può essere assoggettata all'ambiente; l'eco di ecologia ha a che vedere con l'abitare, nel senso che è stato spiegato nel capitolo precedente, e con il proteggere in quanto convivenza. L'essere umano non solamente vive nell'ambiente, ma anche nel sociale e nel soggettivo; sono quindi tre ecologie. La posizione negativa, opponendosi e degradando questi tre domini, così come viene caldeggiato nei mezzi di diffusione, finisce per infantilizzare l'opinione, neutralizzare e distruggere la democrazia. Non possiamo scegliere l'assurda opzione di fare retromarcia e cercare di ricostruire antiche forme di vita. Data la velocità dei cambiamenti, sorge la necessità di riorientare la soggettività, ricomponendo gli oggetti e i metodi dell'insieme.
Di questi tempi si può dire che il destino dell'umanità è nella città, per questo essa è il luogo dove bisogna riorientare gli obiettivi. Bisogna polarizzare la città verso nuovi universi di valore, conferendole come finalità fondamentale una produzione di soggettività non segregativa ma risingolarizzata; cioè, liberata dalle egemonie della valorizzazione del sistema, che sono orientate unicamente verso il beneficio e il profitto. Ciononostante il mondo attuale è lontano da una volontà collettiva operativa, capace di assumere questi problemi con l'animo di risolverli; c'è un'infanilizzazione della gestione.
Attualmente un interessante passo avanti è la diversità di punti di vista, il discredito dei fondamentalismi di ogni tipo è ciò che predomina. La tendenza all'individuale, alla soggettivazione risingolarizzata è qualcosa che può divenire individualismo disintegratore. Però una cosa è la possibilità di essere differente ed altra accentuare le differenze, cosa che ci separa lasciandoci senza possibilità. Si cercano opzioni, connessioni che uniscano gli individui malgrado le differenze razziali, religiose, di età, di politica, ecc.,; c'è un aspetto che va più in là e questo è l'umano; non nel senso di un'ideologia o di una metafisica, o teoria antropologica, ma dell'Umanesimo come atteggiamento di vita.
La tendenza attuale è quella della produzione soggettiva polifonica. Per questo si richiede una rifondazione dell'etica come forza morale, della politica che dovrà attraversare le dimensioni estetiche implicite in questi tre ambiti ecologici: l'ambiente, il sociale e il soggettivo; ma è chiaro che per produrre questi cambiamenti in una società e nella concezione dell'ambiente, si deve riorientare la soggettività in un senso che permetta la rivoluzione nelle credenze degli esseri umani, tanto riguardo all'individualità quanto alla collettività. “Non possiamo concepire la risposta all'avvelenamento dell'atmosfera e al riscaldamento del pianeta, dovuto all'effetto serra, senza una mutazione delle mentalità, senza la promozione di una nuova arte di vivere. Non possiamo concepire una ricomposizione dei mass-media se non ci dirigiamo verso una riappropriazione collettiva della loro utilizzazione, correlata ad una risingolarizzazione della soggettività, in modo tale da concepire la democrazia politica ed economica nel rispetto delle differenze culturali”. Questo lavoro non è facile da ottenere, ma certamente di profondo senso umano, è il lavoro portato avanti dal Movimento Umanista. L'umanista, proposto in questi termini, si orienta verso la costruzione di una soggettività che superi la disintegrazione attuale con un nuovo senso della convivenza umana, mediante il lavoro nella base sociale che riorienta in forma semplice le azioni umane e dà alternative per la creazione di una “Nazione Umana Universale”.