Vito Correddu
Parco di Studi e Riflessione - Attigliano 2 novembre 2012
Il 24 ottobre del 1946, a poco più di un anno dal lancio della prima bomba atomica su Hiroshima, una macchina fotografica da 35mm, montata su un missile V2 in caduta libera da una altezza di circa 150km, ci consegnò la prima foto della Terra vista dallo spazio. Si trattava di una foto sgranata che ci dava un'immagine ancora parziale del pianeta.
Malgrado nel 1961 Yuri Gagarin effettui il primo viaggio orbitale di un essere umano, si dovrà aspettare il Progetto Luna Orbiter del 1966, che aveva lo scopo di mappare la superficie della Luna, per avere delle immagini più nitide e complete. La foto che passò alla storia però fu quella scattata dall'equipaggio dell'Apollo 8 il 24 dicembre del 1968.
La foto a colori ritraeva il pianeta blu visto dalla Luna che sorgeva all'orizzonte. «La visione più bella e toccante della mia vita» furono le parole di Frank Borman a ricordo di quel momento. Ciò che più sorprende delle prime foto della Terra vista dallo spazio è che queste vennero scattate quasi per caso, poiché non erano certo la priorità nell'esplorazione spaziale.
Fino a quel momento, lo sguardo che muoveva tutte le missioni era posto “fuori”, negli infiniti spazi, probabilmente lo stesso sguardo che mosse gli esploratori europei del XV e XVI sec..
Nelle prime missioni spaziali rivolgere lo sguardo verso la Terra non sarà forse sembrato così importante.
A partire dalla diffusione delle foto dell'Apollo 8, per la prima volta nella sua storia, l'umanità intera ebbe una percezione globale della Terra, una percezione destinata a divenire lo spartiacque tra una concezione preistorica dell'essere umano e la nascita di una nuova civiltà.
Questo Terzo Simposio Internazionale del Centro Mondiale di Studi Umanisti che ha per titolo “Un Nuovo Umanesimo per una Nuova Civiltà” ci pone di fronte alla necessità di riflettere, di ripensare l'umanesimo e di conseguenza la natura umana. Resterebbe implicito nel titolo del Simposio che se questo ripensamento non avvenisse non potremmo immaginare e percepire una nuova civiltà.
Da ogni struttura sociale e da ogni visione della natura e del cosmo discende una concomitante e precisa concezione dell'essere umano e viceversa ogni concezione dell'essere umano che si è succeduta nel corso della storia ha sempre significato un modo di strutturazione della società e una visione del mondo naturale. E’ proprio in questa stretta relazione tra ciò che s'intende per essere umano e il paesaggio umano e naturale che riconosciamo la necessità di questa riflessione.
Domandarsi però circa la natura dell'essere umano e del mondo che lo circonda non può in nessuno modo eludere il problema del “chi” domanda, in altre parole del fatto che è sempre l'essere umano che interroga se stesso e il mondo che lo circonda.
Questa riflessione sul postulante sospende tutte quelle affermazioni mascherate da verità assolute che spesso hanno caratterizzato il pensiero occidentale nel corso della storia.
Non si può quindi pensare l'essere umano partendo da concezioni astratte quali: l’Idea, la materia, l’inconscio, la volontà, ecc. e come ha scritto il filosofo Mikel Dufrenne: “In qualunque elemento si muova, il pensiero dell’uomo sempre incontra il faticoso compito di riportare il pensiero al pensatore; qualunque cosa si dica dell’uomo, è sempre un uomo che la dice…”1
Eppure da Aristotele in poi la definizione di essere umano che caratterizzò il pensiero occidentale fu quella di “animale sociale munito di ragione”. L'idea rimase pressoché immutata fino al medioevo, quando si accompagnò la definizione aristotelica al concetto di peccato, contribuendo a svalutare ancor più l'esistenza umana.
Alla concezione aristotelica, l’umanesimo rinascimentale, con Marsilio Ficino e Pico della Mirandola in particolar modo, propose una visione che introdusse una netta discontinuità con le categorie di Aristotele, portando l'essere umano nella dimensione dell'indeterminatezza e della libertà. Purtroppo i secoli che seguirono videro il riproporsi, soprattutto in ambito scientifico - ambito che proprio gli umanisti avevano contribuito a rilanciare -, di una concezione dell'essere umano che, di volta in volta, a seconda del contesto che si prendeva in esame, si manifestava più vicina alla macchina o all'animale. Mai però si riuscì a spiegare il senso di quella strana capacità del pensare che non potevano fare a meno di osservare. Si guardò sempre l'essere umano “da fuori” così come si guardava un qualsiasi altro fenomeno.
Questo lento ma costante processo di disumanizzazione dell'essere umano, che aprì le porte prima alla formazione di imperi coloniali e dittature ed in seguito ai totalitarismi del Novecento, permise nello stesso tempo lo sviluppo della ricerca nell'infinitamente piccolo e nell'infinitamente grande. Tutta l'attenzione si concentrò nel mondo esterno, nella scoperta delle sue leggi e delle sue potenzialità.
Inevitabilmente Dio e il divino in generale come fonte morale e teleologica divenne solo d'impaccio.
Se è vero che con Nietzsche si denunciò la morte di Dio nella cultura occidentale, è pur vero che si avviò la definitiva teologizzazione dell'essere umano già messa in moto dall'Illuminismo, sancendo un essere umano che sempre più accoglierà gli attributi della divinità.
I forti progressi nella ricerca dell'intelligenza artificiale, della vita artificiale, delle nanotecnologie e della robotica rappresentano proprio il tentativo più avanzato di superamento della condizione di finitezza dell'essere umano. In altre parole, queste sarebbero la risposta razionalista al desiderio di immortalità che fin dai tempi di Gilgamesh accompagna la storia umana.
Ma proprio questa divinizzazione che si dischiude sull'assassinio di Dio, preannuncia un'altra morte. Anche l'assassino è destinato a morire e come diceva il noto Michel Foucault: “nuovi dèi, gli stessi dèi, stanno già gonfiando l’oceano futuro; l’uomo scomparirà”2.
Ma questa profezia di Foucault che farebbe pensare a miti dal sapore apocalittico o ad una visione nichilista o antiumanista potrebbe essere altrimenti letta al contrario come una visione per superare l'essere umano disumanizzato. Sarebbe piuttosto il preludio ad una rivoluzione che, come diceva Silo, ispiratore del Movimento Umanista, “dovrà assumere il carattere di una trasformazione che tende ad includere e che si basa sull’essenzialità umana”3.
L'avanzamento tecnologico che si è prodotto a partire dalla metà del XIV secolo e che con la rivoluzione industriale ha visto una netta accelerazione, ci consegna un mondo sempre più interconnesso. La facilità di comunicazione, di spostamento di persone e cose ci mette in contatto quotidianamente con valori, credenze e culture tra loro molto diverse e ciò che ne ricaviamo è un'immediata percezione di una certa sincronicità e concomitanza degli avvenimenti.
Ed è proprio questa sensazione di un unicum spazio-temporale che ci permette di riflettere in maniera del tutto nuova al futuro dell'essere umano.
Nulla più ci è estraneo e lontano.
I vecchi paradigmi e le vecchie ideologie non sembrano in grado di rispondere alla complessità che ci troviamo ad affrontare.
Oggi, al di là di ciò che affermano gli opinion makers, sempre alle prese con il fluttuare della domanda e dell'offerta, la crisi che ci troviamo a vivere è ben lontana dall'essere un fattore semplicemente economico.
Questa crisi non è, almeno non esclusivamente, un capriccio di una élite economica che manovrando la speculazione e la concentrazione del Grande Capitale si pone come arbitro supremo, decidendo la vita e la morte per intere regioni del Pianeta. Non si tratta neanche della crisi che coinvolge le democrazie formali uscite dalla relativamente recente creazione degli Stati Nazionali. Non riguarda nemmeno la sola questione ecologica che vede la trasformazione dell'habitat in qualcosa di sempre più ostile alla sopravvivenza della Vita. Questa crisi non si spiega con la rinnovata rincorsa agli armamenti nucleari che tra l'altro si presenta, diversamente dal passato caratterizzata dall'egemonia dei duei blocchi, molto più minacciosa perché fuori controllo. Non possiamo inoltre riferirci a questa crisi guardando lo scontro di culture e generazioni in atto, l'innalzamento del fanatismo religioso, l'aumento della violenza in tutte le sue forme. In ultimo non possiamo riferirci a questa crisi prendendo in considerazione solo il forte sentimento di solitudine e di non-senso che attraversa intere generazioni di esseri umani.
Se ci riferissimo alla crisi in questo modo, pur evidenziando qualcosa di evidente, non si coglierebbe in profondità il senso di questo passaggio della storia umana. Non faremmo altro che elencare una serie di problemi che oggi ci troviamo a vivere. Nel migliore dei casi saremmo portarti a rispondere in maniera pragmatica accompagnati dall'imbarazzo di quale di questi problemi sia il più urgente, e nel peggiore saremmo invece assaliti da un profondo senso di impotenza e frustrazione.
Questa crisi, che per le sue dimensioni globali non ha eguali nella storia umana, è il sintomo del desiderio di liberazione dell'essere umano da quei modi di essere non umani, non completamente umani e anti-umani che hanno caratterizzato il pensiero occidentale. Un pensiero ormai arrivato fino al più estremo angolo della terra e che ora decreta il suo apparente trionfo.
Ma proprio quando il nichilismo sembra vittorioso e la riduzione dell'essere umano a semplice epifenomeno si è compiuta, qualcosa di diverso e nuovo sembra scorgersi all'orizzonte.
Se con Einstein e la Teoria della relatività ristretta s’introduce per la prima volta il ruolo dell'osservatore nel campo della fisica classica, in campo filosofico, con Husserl dapprima, con Sartre e Heidegger in seguito, si ricomincia a rimettere in discussione la particolarità dell'esistenza umana. Con Sartre il concetto di natura umana si sposa con quello di libertà mentre con Heidegger si avvia un processo di scardinamento di uno dei fondamenti dell’intero pensiero occidentale.
Si avvia un processo di ripensamento dell'essere che, ricongiungendosi all'umanesimo rinascimentale, ci consegna un'idea di natura umana assolutamente indeterminata e dalla temporalità protesa al futuro.
Dopo qualche secolo di silenzio oggi si ricomincia a parlare di umanesimo. Nuovi umanesimi a volte così diversi e contraddittori cominciano ad affacciarsi nel panorama culturale, sociale e politico, tanto che oggi forse la parola “umanesimo” sembra ormai svuotata da un significato definito. Nel migliore dei casi con “umanesimo” si fa riferimento ad un certo atteggiamento che pone nell'essere umano una particolare preoccupazione e generalmente si accompagna ad un certo rifiuto della violenza e della discriminazione.
In questo confuso panorama, in cui una certa direzione mentale manipola, trasforma e consuma ogni elemento che minaccia le posizioni di potere, saremmo quasi spinti a chiederci se vale ancora la pena parlare di umanesimo e se non sia invece più opportuno fare uno sforzo per trovare nuovi significanti.
Forse questo tentativo è già in moto e non si deve far altro che aspettare che il linguaggio compia il suo destino. Nel frattempo, la parola umanesimo resta ancora la sola valida ad indicare il desiderio di liberazione dell'essere umano.
In questo quadro l'umanesimo universalista proposto da Silo ci sembra quello che meglio interpreti quel desiderio. Silo definisce l'essere umano come “quell’essere storico che trasforma la propria natura attraverso l’attività sociale” . Lo affranca dal mondo animale e da una ben poco definita capacità raziocinante e propone un umanesimo che si svincola definitivamente dal contesto occidentale per divenire un patrimonio dell'umanità tutta. Per Silo infatti l'umanesimo era presente, in alcuni momenti storici, in molte civiltà umane. Ovviamente lo si definiva in maniera differente perché si esprimeva in contesti culturali diversi ma quelle caratteristiche peculiari erano o sono ancora riconoscibili.
In un'epoca di mondializzazione Silo propone un umanesimo universalista che risponda sì allo scontro di culture in atto e ai problemi che affliggono la società ma che soprattutto ridia un senso all'esistenza umana indicando una morale che abbia come unica regola quella di trattare l'altro come si vorrebbe esser trattati.
Un essere umano nuovo sta nascendo, l'evoluzione dell'essere umano non si è conclusa con l'homo sapiens. Qualcosa nella direzione dello sguardo sta cambiando, esso torna su stesso rompendo i limiti dello stabilito.
Le nuove condizioni tecnologiche che permettono la crescita di una coscienza collettiva, di un'intelligenza collettiva, della trasmissione di strumenti di liberazione e di trasformazione stanno contribuendo notevolmente alla formazione di un nuovo spirito, di un nuovo essere il cui destino sembra essere la creazione di una nazione umana universale.
Ed è così che quegli eroi che, alla vigilia di Natale del 1968, si ritrovarono ad ammirare il sorgere della Terra, non furono semplicemente spettatori di uno straordinario spettacolo astronomico.
Quegli esseri umani, eredi di quelle scimmie antropomorfe che in un lontano passato, a dispetto dei determinismi e dei meccanicismi biologici a cui erano sottoposte, non fuggirono davanti al fuoco; quegli esseri umani più vicini agli spazi riservati al Divino, videro l'alba di un nuovo mondo, di una nuova civiltà.
Concludo ringraziando a nome del Centro Mondiale di Studi Umanisti tutti i relatori e gli organizzatori per aver contribuito a costruire questo Terzo Simposio dal titolo “Un Nuovo Umanesimo per una Nuova Civiltà” e auguro a tutti i partecipanti di trovare in questi giorni un momento di riflessione e d'ispirazione per il futuro.
Grazie.