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La Spiritualità nell’Arte Trascendentale. Ipotesi per una ricerca e uno sviluppo della spiritualità nell’arte

Simone Casu

Festival “La Città Olistica”, Modena
28 maggio 2011

Ciclo di Incontri “IspirataMente” Libreria Assaggi – Roma
21 febbraio 2012

Grazie agli organizzatori e a tutti voi di essere intervenuti. Sono Simone Casu, membro del CSU Salvatore Puledda e mi occupo di arte e spiritualità con l’Istituto ESTETRA.

Solitamente più che trovare delle risposte mi pongo molte domande, per cui mi scuserete se oggi darò poche risposte e condividerò con voi numerose dom ande, dubbi, ipotesi e possibilità, le stesse che orientano l’istituto ESTETRA nelle sue ricerche.

La conferenza è suddivisa in diverse parti: 1. Definizione di spiritualità 2. Esperienza spirituale 3. Registro della spiritualità 4. Trasmissione della spiritualità 5. Linguaggio della spiritualità 6. Fissaggio della spiritualità nell’opera d’arte 7. Distinte forme di trasmettere la spiritualità 8. L’Arte Trascendentale 9. Conclusioni

1. Definizione di spiritualità Per noi la spiritualità si esprime nel riconoscere i segni del sacro dentro e fuori di noi. Riconoscerli e seguirli. Curare questa connessione sottile.

Il sacro è ciò che mostra l’essenza divina delle cose e dell’essere umano. Questa essenza è principalmente coscienza intenzionale e immortale. Quando l’essere umano riconosce il sacro che è in lui e fuori di lui è perché ha deciso di costruire e seguire la sua parte divina umanizzando la parte terrena. Il terreno non si oppone al sacro, ma è lo strumento attraverso il quale si manifesta. La spiritualità è prima di tutto un’esperienza di contatto e di abbandono al sacro. Questa esperienza si sperimenta come unità interna, come profonda pace, calda allegria e forza della fede nella vita. Questa esperienza diventa uno stile di vita in cui si cercano la coerenza interiore tra ciò che si pensa, si sente e si fa; la coerenza col mondo che si esprime nel rispetto di tutte le creature, partendo dal trattare gli altri come si vuole essere trattati.

L’arte, quando è espressione vera e profonda di questa spiritualità, si anima della luce del sacro. La spiritualità nell’arte significa dare una forma estetica al divino umano. Questa forma estetica non è diversa dalla bellezza che scorgiamo nell’etica, quale forma morale che traduce il senso del sacro nella società. Non vi è spiritualità nell’arte senza coerenza, bellezza ed etica.

Il sacro si esprime nel mondo in maniera costruttiva e l’essere umano è chiamato a partecipare alla creazione attraverso i suoi atti, i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Quando si è posto il divino fuori dall’umano si è commessa una grave ingenuità. L’umano ha così perso la centralità del suo potere attribuendo a credenze, valori, istituzioni ed oggetti il senso della propria esistenza. Il sacro si è esteriorizzato e l’uomo e la sua arte si sono svuotati di spiritualità rimanendo come corpi senza vita.

La spiritualità nell’arte non è, quindi, dovuta al soggetto rappresentato sacro o profano, ma all’esperienza vissuta e fissata nell’opera dall’artista nel momento della creazione.

Si tratta di una spiritualità lontana dai fanatismi religiosi, lontana dalle icone e dai feticci da adorare, lontana dalla punizione divina, lontana dai sensi di colpa, lontana dai comportamenti ipocriti e formali. Lontana da una spiritualità esterna, in cui tutti possiamo scivolare. La spiritualità a cui ci riferiamo non è appannaggio delle religioni o delle mistiche, ma è presente in tutte le discipline umane nate dall’amore per l’umanità, da quelle scientifiche a quelle filosofiche. Tutte le forme d’arte sembrano avere una speciale risonanza con l’esperienza spirituale. E di questo parleremo oggi.

2. Esperienza spirituale Al centro della spiritualità c’è l’esperienza. A volte avvertiamo la spiritualità come un tono generale di qualcosa, un leggero sospetto di un’altra dimensione, come se intuissimo che c’è qualcos’altro. Succede anche che, in alcune occasioni, lo spirituale si manifesti apertamente, portandoci a vivere un’esperienza straordinaria. In questa sede prenderemo in esame soprattutto questi istanti folgoranti. Lo sperimentiamo in momenti particolari che spesso rimangono difficilmente integrabili, anomali, eppure avvertiamo che qualcosa di importante è successo nelle nostre vite.

Vorrei che ognuno di voi cercasse nella propria esperienza uno di questi momenti, che si ricollegasse per un istante a quel tipo di vissuto, in cui abbiamo compreso tutte le cose, abbiamo pianto di gioia, abbiamo visto il mondo sotto una luce diversa. Ci prendiamo qualche secondo per vedere se qualcosa emerge fuori dal nostro passato. Ora che ci siamo connessi sappiamo più o meno a cosa ci stiamo riferendo.

Nella nostra ricerca della spiritualità nell’arte abbiamo dovuto riconoscere che l’elemento significativo che la distingue dalle normali esperienze è il suo essere trascendentale. Uso il termine “trascendentale” in un senso molto comune. Qualcosa che ci supera, che è contemporaneamente noi stessi e anche più di noi stessi. Allora sembrerebbe che lo spirituale, pur passando attraverso i sensi, il cuore e la mente, si diriga verso esperienze di altro tipo che percepisco come trascendentali. Qualcuno si riconosce in questa semplice definizione?

Perché la sperimento in questo modo? Sembrerebbe che vi siano elementi di quest’esperienza che rimangono fuori dal normale vissuto quotidiano in cui corpo, cuore e intelletto sono i principali referenti per costruire e vivere le esperienze.

3. Registro della spiritualità Dove sento, dove registro l’esperienza spirituale? Quali sono i sensi che la captano? In quali zone del corpo posso dire di sentirla? Nel cuore, nella mente, nella pancia o nel sesso?

Ci troviamo, quindi, davanti ad una prima difficoltà di fronte a queste esperienze, una difficoltà “fisica”, se così la possiamo definire, dato che queste sono esperienze vaporose e sfuggenti quando si cerca di afferrarle e di dirigere su di esse la nostra attenzione, nell’intento di capire che cosa sono e da dove vengono.

Ammetto quindi che ci sono problemi di definizione e di ubicazione di queste esperienze quando le metto in relazione alla consistenza più corporea di altri tipi di esperienza. È forse questa loro “natura” che ci fa dire che sono esperienze straordinarie.

Se la spiritualità non è solo un concetto, un’immagine, un’emozione o uno stimolo fisico, come ad esempio lo è un suono, posso tranquillamente chiedermi come è possibile che esista, e se esista?

Se non esiste un punto fisico preciso in cui la sento, se non c’è un organo bersaglio verso cui si dirige, se non ha espressione fisica in un suono, una materia, una parola, se non la posso catturare e bloccare col pensiero, allora ci troviamo di fronte ad un problema di definizione dei registri: come può esistere e manifestarsi qualcosa di tanto impalpabile e nebuloso?

Posso negarla… e questo succede, oppure per integrare questa cosa -così estranea alla mia quotidiana esistenza- è chiaro che dovrò fare una revisione delle mie credenze.

È molto probabile che l’incertezza, derivata dell’impalpabilità e dalla non localizzazione di questi vissuti in un punto del sistema corporeo, sia sempre stato un grosso impedimento nella comprensione e trasmissione del fenomeno spirituale.

Siamo di fronte ad un fenomeno che è irriducibile al nostro intelletto, che svanisce nel momento in cui lo vogliamo afferrare e, come tutte le esperienze, non è possibile descriverlo, fissarlo e immobilizzarlo in un concetto o in un’immagine. Per ricrearlo esso va sperimentato e rivissuto.

Una caratteristica dell’esperienza spirituale di cui parliamo è descritta da Silo nel libro Appunti di Psicologia1: essa può verificarsi quando avviene un’alterazione della struttura di coscienza, che definisce coscienza ispirata. “La coscienza ispirata è una struttura globale, capace di intuizioni immediate della realtà. È atta, inoltre, ad organizzare insiemi di esperienza e a dare priorità a espressioni che di solito sono trasmesse attraverso la Filosofia, la Scienza, l’Arte e la Mistica.”

Non sempre l’ispirazione porta alla spiritualità, si può essere ispirati in tante direzioni, ma in alcuni casi, quelli che noi indaghiamo, ci si ritrova davanti ad una percezione della realtà e di noi stessi che sconvolge il nostro modo di pensare e di sentire; sentiamo che la vita ha un senso che va molto più in la della morte, sentiamo che in tutto l’universo regna un coerenza che unisce tutto e uno, sentiamo che tra noi, il mondo e gli altri non c’è nessuna differenza.

Non si tratta di sola ispirazione, ma attraverso quest’apertura poetica percepiamo e viviamo il contatto con il sacro, con il divino.

Sempre da Silo, Appunti di Psicologia, leggiamo: “Nella Mistica troviamo vasti campi d’ispirazione. Va detto che quando parliamo di ‘mistica’ in generale, ci riferiamo ai fenomeni psichici di ‘esperienza del sacro’ nelle loro diverse profondità ed espressioni. Esiste una vasta letteratura che si occupa dei sogni, delle ‘visioni’ del dormiveglia, e delle intuizioni vigiliche dei personaggi chiave di religioni, sette e gruppi mistici. Abbondano inoltre gli stati anormali e i casi straordinari di esperienza del sacro che possiamo definire come Estasi, ossia situazioni mentali in cui il soggetto è profondamente assorto, abbagliato dentro di sé e sospeso; come Rapimento, per l’incontrollabile agitazione emotiva e motoria durante la quale il soggetto si sente trasportato, trascinato fuori di sé verso altri paesaggi mentali, altri tempi, altri spazi; e, infine, come Riconoscimento, in cui il soggetto crede di capire tutto in un istante. In questo passaggio stiamo esaminando la coscienza ispirata nella sua esperienza del sacro, che varia nel modo di porsi nei confronti del fenomeno straordinario, sebbene, per estensione, tali funzionamenti mentali siano stati attribuiti anche ai raptus del poeta o del musicista, casi in cui ‘il sacro’ può non essere presente.”

La forte esperienza spirituale si presenta come un vissuto totalizzante.

Nella rappresentazione che ne abbiamo nella nostra coscienza, non è possibile registrarlo in un punto preciso, come un dolore o un’emozione, ma al contrario il fenomeno si presenta come un “dappertutto”. Lo sentiamo allo stesso modo dentro e fuori di noi, nel presente ma anche nel passato e nel futuro. Cosicché quest’esperienza sembra rompere i confini quotidiani legati all’ordinario registro del tempo e dello spazio. Essa non si presenta come un semplice vissuto, ma come un’intera struttura di relazioni, tra loro dinamiche, interconnesse e volatili.

L’esperienza spirituale si presenta come un vissuto totalizzante in cui si perdono per un istante i limiti del corpo, dello spazio e del tempo. Vi ritrovate in questa nostra esperienza?

Vediamo se questa definizione ci aiuta a cogliere meglio quest’opera d’arte.

Turner Joseph Mallord William Turner, Pioggia, vapore e velocità - La grande ferrovia dell'Ovest (1844) National Gallery, Londra

Dal punto di vista dei registri posso descrivere l’esperienza spirituale come il vissuto di trascendere le normali sensazioni e stati mentali, perché vi è un’espansione, una rottura, una fuoriuscita, un’estasi, un rapimento, un sentirsi altro da sé.

Leggiamo un’altra opera d’arte. «Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare»

Tutti riconoscerete L’infinito di Giacomo Leopardi.

4. Trasmissione nell’opera della spiritualità Se parliamo di spiritualità nell’arte, dentro l’arte, parliamo di opere d’arte quali entità fisiche e percepibili dai sensi, quindi non indefinibili nella loro presenza. Questo è un quadro, questa è una poesia, questa una musica, niente di straordinario, sono cose, fenomeni conosciuti e frequenti come lo sono il nostro corpo, la nostra emozione, ecc.

Poniamoci una serie di domande o problemi.

Problema numero 1: come fa una “cosa” indefinibile a vivere in una cosa definita come un quadro o una scultura?

Questa spiritualità, se la percepisco nell’opera, da qualche parte starà. Dove? Nel colore, nella pietra, nel suono, nella forma, nei contenuti, nelle idee, nelle immagini? Starà in un insieme di cose che probabilmente non colgo solo con la vista. L’indefinibilità spirituale pone un problema di “essenze” nel momento in cui l’arte visiva si manifesta attraverso un oggetto, l’opera, che vive in un tempo e in uno spazio, in un’entità fisica. Noi sappiamo e conosciamo che essa può esistere in uno stesso spazio e tempo, è una duplice realtà, fisica e impalpabile, che non si oppongono. Noi umani ne siamo un esempio.

Usiamo un elemento più grossolano e semplice. Il computer non è forse fatto di hardware e software? Tutto quel meccanismo senza energia non si attiva: abbiamo solo hardware, un computer è morto senza programmi. Se metto intelligenza ed energia, non solo energia, ma una certa coerenza, un certo ordine, una certa cosa che si chiama programmazione, ecco che esso vive!

In un’opera d’arte solitamente non c’è né energia elettrica e né un programmatore. Se usassimo la metafora del computer, potremmo identificare il programmatore con l’artista e l’hardware con l’opera. E l’energia chi la mette? La mettiamo noi che la osserviamo, la mette l’artista che la esegue, la mette la fisica nella materia e nella luce. È un tripudio di energia, a volte anche elettrica!

Fermiamoci qui formulando una prima ipotesi. La spiritualità impalpabile si fissa nell’opera (hardware), grazie ad una “programmazione” operata da parte dell’artista e si attiva grazie alle diverse operazioni effettuate dall’osservatore.

Problema numero 2: come fare a “programmare” l’opera, a mettere la spiritualità nell’arte?

La prima difficoltà che incontro è data dal fatto che se il registro è instabile ed etereo, a rigor di logica dovrei prima catturarlo e poi trasferirlo nell’opera, ma abbiamo visto che esso sfugge. Sicuramente potrebbe avvenire che ciò che si manifesta nell’esperienza spirituale ci lasci dei ricordi, come in qualsiasi esperienza avremo delle sensazioni, tanto che riusciamo ad evocare in parte quei momenti. Questo vissuto lo posso certamente trasferire nell’opera, al di là degli esiti, questo si può fare. Posso trasferire un ricordo che mi si presenta in immagini visive, uditive, cenestesiche, ecc. in una qualsiasi opera d’arte. La prima difficoltà sembra superata, dato che per quanto instabile ed etereo sia il registro dell’esperienza spirituale, io ne posso quantomeno trasferire il ricordo nell’opera.

Tutti noi sappiamo però che, per quanto il ricordo evochi alcune sensazioni, la natura dell’esperienza in presa diretta ha tutt’altra consistenza e non trasmetterò la spiritualità come l’ho vissuta, ma solo il ricordo della spiritualità e, quindi, rimane sempre irrisolto il nocciolo della trasmissione. Sembrerebbe che per trasmettere qualcosa, la debba possedere, in qualche modo, nella sua integrità e non sbiadita dai ricordi.

Prendiamo a sostegno un esempio dalla linguistica. Per trasmettere un concetto, come le parole che ora pronuncio, devo avere un centro di elaborazione e di registro: l’intelletto, di cui devo possedere dei codici in memoria e le varie possibilità creative, per poterne fare un uso intenzionale, dirigere questo pensiero verso di voi, con un suono, con un segno come la scrittura. Questo procedimento possiamo rappresentarlo in questo modo. Vi è un’intenzione, un momento di creazione o ideazione, in cui agiscono sensi, memoria e immaginazione. Sto elaborando come un processore di un computer. Dopo questo momento fatto di scelte, colgo il registro che cercavo e dico: sì, è questo! Lo traduco in suono o segno, che si fanno portatori di questo significato e, quindi, in qualche modo lo fisso. Che questo fissaggio sia per un istante come nella parola, o rimanga nel tempo come nella scrittura, non importa: esso rimane in un veicolo che poi arriva a voi che lo percepite attraverso i sensi. Voi poi lo decodificate in qualche modo, ma questo già non è più compito dell’artista, che lancia questa comunicazione, consapevole che dall’altra parte può essere colta o meno.

Sentiamo accettabile quest’idea del “veicolo”, del mezzo che trasporta informazioni, propria del sistema linguistico e semiotico. In un’opera d’arte vi sono tante informazioni, relative all’epoca in cui è stata creata, alle idee, ai valori, ecc.

Ma posso definire la spiritualità al pari di un concetto, di un’emozione o di un’immagine?

Se si credesse che le cose siano così, e ci sembra accettabile, i problemi prima elencati continuano a non risolversi: perché se non posseggo l’esperienza spirituale come un concetto, un’immagine, un’emozione, se non la creo, non la manipolo, come faccio poi a trasmetterla?

Proviamo a lanciare una seconda ipotesi che ci possa venire in soccorso. Potremmo pensare, per superare questo punto, che vi siano artisti altamente preparati in modo da indurre, non dico a piacimento, ma in maniera frequente e regolare, queste forti esperienze spirituali. Se così fosse, possiamo immaginarci che essi ne possono disporre in maniera più frequente e intenzionale di noi comuni mortali, che non sappiamo perché, come e quando ci verrà, e se ci verrà, un’altra simile commozione. Se vi sono questi artisti che possono creare queste alterazioni e, quindi, avere una certa gestione dell’esperienza spirituale, rimane comunque il problema di fissare, veicolare quest’esperienza in un’opera. Perché, così come vi è un’importante differenza tra il vivere l’esperienza spirituale casualmente o in qualche modo riuscire a indurla, altrettanta differenza incorre tra il viverla ed avere poi i mezzi e le capacità di trasferirla nell’opera.

Questi sono i problemi che noi dell’istituto ESTETRA abbiamo avuto nel momento in cui ci siamo posti il compito di sviluppare la spiritualità nell’arte. Se è possibile indurre queste esperienze, ora ci chiediamo come sia possibile fissarle nell’opera, ma prima vorrei soffermarmi sul particolare linguaggio dell’arte che rende possibile questo fissaggio.

5. Linguaggio della spiritualità Ci siamo chiesti come faccia l’artista a trasferire la spiritualità nell’opera. Abbiamo constatato che alcuni artisti come Turner o Leopardi sembra ci siano riusciti. Inoltre abbiamo ipotizzato che avessero una certa capacità di creare quel fenomeno spirituale -per ora diciamo creare ma poi vedremo che la cosa sarà diversa- e quindi di entrare in un particolare stato di alterazione che abbiamo definito coscienza ispirata.

Se accettassimo quest’ipotesi come vera, rimane l’altro scoglio da superare, ovvero come faccia a trasferirla, prendendo ad esempio il modello ereditato dalla linguistica. Ma dato che quest’esperienza non è circoscritta come un concetto, anche il linguaggio non può essere quello comune.

Occorre fare una precisazione o meglio una distinzione che è alla base della teoria estetica dell’arte trascendentale. Bisogna ammettere che vi sono artisti e opere che non si pongono assolutamente il problema della spiritualità, mentre altri lo sfiorano e altri ancora lo pongono quale tema centrale della loro ricerca.

È chiaro che dovrò accettare che alcuni artisti siano stati interessati al tema e altri no, che quindi nella storia di tutte le arti vi siano opere con un diverso grado di spiritualità, e, anche se questo può sembrare strano, vi propongo uno schema che sintetizzi questa situazione.

Arte trascendentale e arte immanenziale

Nel grafico c’è l’arte trascendentale, come massima espressione della spiritualità nell’arte, e l’arte immanenziale, come quasi assenza di questo fenomeno.

Così come possiamo riconoscere che la spiritualità si esprima in forme e intensità differenti nella nostra vita e nel quotidiano, fino a queste forti esperienze che abbiamo descritto, anche nell’arte possiamo ipotizzare che vi siano diversi gradi e livelli d’intensità.

In precedenza abbiamo parlato di una tipologia di artisti, quelli che traducono nell’opera il ricordo dell’esperienza di contatto con il sacro e che non sono in grado di creare queste esperienze, così come avviene, d’altronde, per la maggior parte delle persone. Per costoro l’esperienza spirituale, che abbiamo detto dura per brevi istanti, non è gestibile. In tali condizioni, anche se volessi trasmettere qualcosa nella mia opera non potrei di certo trasferire la mia esperienza dato che è oramai svanita, ma posso trasmettere ciò che ne rimane, come ad esempio contenuti, emozioni o visioni che si sono rivelate.

Un artista che non gestisce l’entrata nello stato di Coscienza Ispirata, può però tradurre i ricordi di tale esperienza nell’opera e come tali essi diventano contenuti di coscienza gestibili e trasmettibili. In quest’ipotesi non si tratta di trasmettere la spiritualità nell’opera per come l’abbiamo vissuta, potremmo dire in “diretta emozionale”, ma solo ciò che essa ha lasciato in noi al suo passaggio. Potremmo quindi ritrovarci con contenuti “spiritualizzati” e, quindi, usare l’arte al pari di un linguaggio, passando per il processo prima analizzato che va dall’intenzione, alla creazione, fino alla trasmissione.

Come trasmettere questi contenuti “spiritualizzati”, se le forme usate per comunicare la quotidianità, nate per soddisfare la dimensione comunicativa, si rivelano spesso insufficienti e inadeguate?

Mi piace pensare che l’essere umano si possa essere trovato in un momento, molto tempo fa, con la necessità di differenziare il linguaggio quotidiano per crearne uno spirituale. Un linguaggio adatto alla trasmissione di quest’esperienza spirituale. Come dovrebbe essere questo linguaggio?

Il più possibile simile all’esperienza. Se essa è impalpabile e totalizzante immateriale, aperta… si dovrebbe sviluppare un linguaggio adeguato, ben diverso da quello convenzionale, che è al contrario puntuale, che definisce e circoscrive i fenomeni e che per questo motivo deve cercare di essere il meno ambiguo possibile.

Possiamo immaginarci un linguaggio che va in due direzioni: una direzione tecnica, convenzionale e un’altra evocativa spirituale. Le prime forme espressive ed estetiche, come la musica, la danza, la poesia, la pittura, guardate da questo punto di vista, potrebbero suggerire il senso del loro uso e scoperta. Potremmo addirittura azzardare dicendo che esse sono i linguaggi dello spirito, ma non vorrei arrivare a delle conclusioni, piuttosto mantenere gli argomenti sul filo delle ipotesi, delle possibilità.

Devo dire però che anche in storie strane, come nei racconti mitologici e le fiabe, ci sono strutture di linguaggio che sembrano adatte a trasmettere ed esprimere i contenuti “spiritualizzati”. Anche i sogni sembrano essere molto vicini a questa dimensione spirituale, e non a caso l’arte da sempre si ispira ai racconti mitico-religiosi, alle fiabe e ai sogni.

Certo le arti espressive non sono l’unica forma di esprimere la spiritualità, ci sono anche opere fatte di azioni verso gli altri, ricerche scientifiche, trattati di filosofia che traducono quest’esperienza ispirata del sacro, ma qui siamo nell’ambito dei mezzi di trasmissione, del linguaggio.

L’espressione artistica è, in modo plausibile, un linguaggio nato dall’esigenza di trasmettere esperienze straordinarie e a noi sembra essere, per caratteristiche strutturali, il linguaggio dello spirito. Se così fosse, questo linguaggio potrebbe avere in sé una certa potenza, una certa essenza e quindi non solo è adatto a trasmettere, ma potrebbe -e questo è un punto cardine dell’arte trascendentale- attivare in chi lo usa l’esperienza spirituale.

Chiudiamo questa parte formulando una terza ipotesi. L’Arte è un mezzo di trasmissione che diventa, anche e in contemporanea, un mezzo di evocazione o, come noi lo definiamo, uno strumento di meditazione dinamica per accedere all’esperienza spirituale.

6. Fissaggio della spiritualità nell’opera d’arte Abbiamo ipotizzato due tipologie di artisti: coloro che gestiscono in qualche modo l’ispirazione e altri che invece si devono accontentare di avere ricordi in qualità do traduzioni di quell’esperienza. Abbiamo immaginato che i primi lavorino direttamente con il vissuto spirituale, mentre i secondi con le sue reminiscenze. In entrambi i casi ci chiediamo come questa esperienza si codifichi, si fissi attraverso il linguaggio dell’arte.

Se consideriamo che il linguaggio sia un mezzo, un veicolo, come un treno merci, cosa ci mettiamo dentro?

Nel linguaggio convenzionale c’è un accordo esplicito, una grammatica, una sintassi, dei segni e dei significati codificati. Quando dico ‘cane’ è chiaro, per accordo sociale, che mi riferisco a tutti quei simpatici quadrupedi domestici. È un lavoro complesso che si è andato costruendo, di astrazioni, di riduzioni, che si riferiscono a realtà conosciute, come ad esempio un’emozione. Se dico ‘allegria’ o ‘noia’ ci si capisce perché ci siamo messi d’accordo sui significati e sui registri corrispondenti.

Triangolo semiotico

Abbiamo detto che non c’è una parola che possa evocare le sensazioni dell’esperienza spirituale in maniera descrittiva. Il linguaggio deve essere il più possibile evocativo per similitudine e contiguità all’esperienza spirituale. Non sarà il suo corrispondere codificato a renderlo efficace, ma la sua capacità di farci rivivere alcune di quelle sensazioni legate all’esperienza che si vuole trasmettere.

Ma come si fissa qualcosa di immateriale in qualcosa di materiale? La domanda è mal posta perché parte da un presupposto oramai passato. La fisica quantistica ci è venuta incontro, facendoci capire che tutto è energia, che la materia altro non è che una possibile configurazione dell’energia; che quindi tra l’immateriale dell’esperienza spirituale e la materialità della quotidianità e delle cose forse non c’è opposizione, ma solo diversità. In qualche modo l’impalpabile e l’immateriale sono condizioni che non sono estranee alla materia, al suono, alla narrazione e quindi si possono trasferire e fissare in un’opera d’arte.

Questo modo di vedere, che può scandalizzare la mente materialista, è però vivo nella percezione comune dell’arte quando, ad esempio, si dice volgarmente: “Quel pittore ha colto la personalità di chi ha ritratto!” Ma come è possibile cogliere qualcosa di etereo, di invisibile, di sottile come la personalità attraverso dei colori, delle pennellate e un’attenta osservazione? Cosa guardo del mio modello quando lo copio? Ha forse un colore la personalità? Ha forse un’altezza o una larghezza?

Non crediate che il problema sia tecnico. Moltissimi artisti dell’epoca di Rembrandt erano tecnicamente anche superiori. Anche oggi sentiamo di virtuosi musicisti e nella storia dell’arte vi sono tantissimi esempi di opere tecnicamente perfette, ma vuote dal punto di vista dell’energia vitale. Osservando questo quadro della compagna di Rembrandt ci si sente osservati, lei ci guarda con quella vitalità lontana e carica di forza. È viva, come sono vivi quasi tutti i ritratti di Rembrandt, di Tiziano, di Giorgione, di Leonardo e tanti altri ancora che ammiriamo nei musei.

Non può essere un caso. In ognuno di essi è presente la vita, l’anima della persona ritratta. Addirittura ci chiediamo: com’è possibile che anche in procedimenti più meccanici come nella fotografia possa venir fuori questa vita? La fotografia sembra non essere solo impressione di fotoni su una pellicola o pigmento sulla carta! È evidente che quel che c’è di fissato nell’opera d’arte è non-locale, è presente nell’opera in vari punti, ma in nessun punto in particolare, come d’altronde potrebbe essere l’esperienza spirituale. Vi ricordate quella sensazione totalizzante?

La non-località con cui, ad esempio, si cerca di spiegare l’effetto del legame simultaneo di due particelle subatomiche conosciuto come entanglement, ci porta a pensare che la dimensione classica dello spazio-tempo sia limitata al fine di spiegare una molteplicità di fenomeni e, magari, anche il fenomeno spirituale.

Ad esempio una credenza, una convinzione dove sta? Dove la ubico? Posso dire dove sta un atomo, ma dove esattamente stia una credenza è impossibile. Posso andare dal medico e chiedergli: mi scusi vorrei fare un’operazione, mi toglie la convinzione di sentirmi responsabile dei mali del mondo?

Quindi, già con la “materia” psicologica abbiamo dei problemi di localizzazione, ma per una particella subatomica, che si credeva essere ben ancorata al vecchio sistema di riferimento, il fatto che non la si possa definire creò diversi problemi agli scienziati. In questo modesto caso per non-locale, intendiamo semplicemente l’impossibilità di arginamento, di confinamento di un’esperienza, perché essa viaggia e si manifesta in una struttura complessa e dinamica.

Se guardassi un CD musicale, mi potrei chiedere dove sta la musica! Nei solchi non c’è nessun pentagramma e solo attraverso diverse trasformazioni, traduzioni tra sistemi di codifica e un decodificatore, come il mio lettore CD, posso far comparire la musica.

Allora la musica dove sta? Nel CD o nell’apparecchio? E ancora, sta nell’apparecchio o nella mia mente che ascolta? Oppure sta in tutte queste dimensioni o proprietà dell’energia? Quindi è inadeguato credere che il fissaggio di un’esperienza impalpabile possa avvenire in una forma o in un colore, o in un quadro, ma sarà sempre in una struttura dinamica a più livelli in cui, per il compimento dell’intero processo, sono necessari tanto chi fissa e codifica, quanto chi attiva e decodifica.

In questo modo, la parola fissaggio risulta inadeguata, ma si potrebbe forse più opportunamente parlare di strutture di comunicazione, di fluire dell’energia, di strutture dinamiche di collegamento tra due esseri: strutture non-locali e non-temporali, nel senso che esse non sono del tutto estranee a questa dimensione altrimenti non le potremmo mai percepire, ma la loro natura è quella di non rimanere intrappolate in questi limiti.

Questa scultura sta a Berlino ed è stata creata più di duemila anni fa, ma io la sento qui e ora, la sento attuale, la sento viva. Ovvero riconosco in essa una tecnica, una fisicità, fissate nello spazio-tempo (antico Egitto 2300 anni or sono), ma i suoi significati spirituali, sempre che li avverta, hanno una data e un luogo precisi?

L’opera d’arte, in questo senso, non è un luogo dove depositare un’informazione come se fosse un oggetto materiale. Metto lì la mia macchina, il mio giubbotto, mentre la mia esperienza spirituale -che sia un concetto, una sensazione o un’immagine- la metto invece da quest’altra parte!

Questa è comunque una visione “materialista” della spiritualità, in cui la mente la considera un “oggetto”. Ma se il sistema fosse un altro, non meccanico, ovvero non-locale, non-spaziale, non-temporale, di tipo totalizzante, potrei dire che, anche solo come probabilità, la spiritualità sia sempre stata nella mia vita, dappertutto, indeterminata, come nel principio di indeterminazione della fisica quantistica. Se è indeterminata, chi la determina? Sempre seguendo la fisica quantistica, potremmo forse dire che la determina l’osservatore? O meglio, è l’atto di osservare che determina l’oggetto osservato?

La fisica quantistica mi aiuta a comprendere la zona in cui può stare una risposta al fenomeno, ma ancora non mi soddisfa, perché io non ho la sensazione che basta osservare un quadro o la natura o me stesso per determinare quest’esperienza così forte e netta, per entrare ad esempio in coscienza ispirata. Quindi non è solo l’atto di osservare che sempre si riferisce a un oggetto, ma è probabile che per connettersi con lo spirituale, in questo caso nell’arte, sia necessario qualcosa di più complesso.

Ricapitoliamo quanto detto riguardo al fissaggio della spiritualità nell’opera d’arte. Abbiamo detto che una scultura e un quadro, essendo oggetti materiali, si vanno strutturando in una forma, non solo estetica, ma anche energetica, che consente di fissare un’esperienza che in qualche modo in essi rimane registrata. Senza un osservatore, il quale non è un attore passivo come solitamente lo si considera, non avviene niente, dato che è nel suo porsi in relazione con l’opera che si va attivando nuovamente quest’esperienza. Da un problema ora se ne presentano due, poiché non è solo l’artista a creare l’opera, ma si tratta di una struttura in cui occorrono come minimo tre soggetti: l’artista, l’opera, il percepente. Abbiamo inoltre detto che non sembra sia l’atto di osservare che ci faccia vedere lo spirituale nell’arte o in tutte le forme dell’universo.

Se ciò che occorre è attivare una struttura di relazioni tra loro dinamiche, interconnesse e impermanenti, che cosa potrei prendere come esempio? Se usassi un altro termine ancora, la cosa si può fare più vicina. Se, ad esempio, lo vedessi come un fenomeno di sintonizzazione e di frequenza? Vi torna la cosa?

Non un atto intenzionale di osservazione, ma un sintonizzarsi sulla spiritualità, sul sacro, in modo tale che esso compaia davanti a me e dentro di me! Se è vero che esso è totalizzante, se è vero che sta dappertutto e allo stesso tempo da nessuna parte, questo osservare non è spaziale, non è un punto di vista, ma potrebbe essere un tono generale, ad esempio, una condizione energetica, una frequenza. Se così fosse, non solo occorre che l’artista sia ispirato, ovvero che crei in alterazione di coscienza, in quella che abbiamo definito Coscienza Ispirata, ma che questo stato, per permettere una sintonizzazione, debba essere in parte presente o attivarsi anche nell’osservatore.

Sembra, allora coerente che quando colgo con forza il sacro, esso si esprima nelle forme prima ipotizzate, ossia in maniera totalizzante, non-locale. Se questa frequenza esiste dappertutto, l’opera d’arte e l’artista che cosa dovranno fare per trasmettere quest’esperienza? Come intuite, non si tratta di mettere una cosa, un contenuto in un veicolo, ma di dare una frequenza, di mettere nell’opera una sorta di sintonizzatore.

Tento una quarta ipotesi per sintetizzare quanto detto. Se non facciamo distinzione tra materia ed energia, in particolare quella mentale, più che fissare dei contenuti intellettuali in un’opera, lo spirituale nell’arte è una forma di operare strutturale e complessa, che modifica la sostanza materiale in maniera non descrivibile, ma che si può comunque rivivere se ci si sintonizza in uno stato di coscienza ispirata.

7. Distinte forme di trasmettere la spiritualità L’esperienza spirituale è un fenomeno che va oltre il tempo e lo spazio. L’opera d’arte e il linguaggio artistico sono strumenti sviluppati per entrare in sintonia con il sacro, la cui caratteristica è di rimanere attivi nel tempo. Abbiamo già distinto due tipologie di arte, immanenziale e trascendentale, entro le quali vi sono diversi gradi di spiritualità. Come faccio a stabilire questa gradazione? Si può pensare a uno “spiritualometro”?

Eppure non consideriamo tutti gli artisti e tutte le opere allo stesso livello. Questa gradazione di giudizio è solo legata al gusto personale? All’azione propagandistica? Al sistema di credenze culturali ed epocali? Certamente riconosco l’influenza di tutte queste condizioni sui miei parametri di valore. Eppure vedo che vi sono opere, come le sculture di Michelangelo, che hanno una tale frequenza e forza spirituale, da pormi di fronte alla domanda se nell’opera possa esistere un valore “oggettivo” e non solo soggettivo. Se quindi al di là della libertà di ognuno di negare dei fenomeni, alcuni fenomeni siano attivi all’interno di una dimensione, in questo caso nella società umana. Essi sono in una forma intersoggettiva, “sono” al di là di me che li osservo. Come un mare, che io mi bagni o meno, che io ci vada o meno, esso è lì.

Credo fermamente che vi siano opere oggettivamente spirituali, altre del tutto materiali e altre con tendenza allo spirituale. Credo anche che si potrà trovare un modo o un livello di coscienza adeguato, per uscire dal totale sensualismo soggettivo che ha regnato indiscusso in tutta l’Età Moderna, per giungere ad una visione più vera, non così fortemente manipolabile, della spiritualità nell’arte.

Per ora, per il livello delle nostre ricerche, non posso che rimanere sul piano delle ipotesi, ma la mia esperienza diretta mi porta a classificare queste opere secondo dei parametri più coscienti e strutturali che non la sola intuizione. Un criterio, oltre alla sensibilità che vado sviluppando, si riferisce ai meccanismi di trasmissione e ricezione della spiritualità nell’opera d’arte.

La nostra quinta ipotesi è che questa ricerca oggettiva debba considerare la genesi dell’opera d’arte e che, quindi, sia di fondamentale importanza in che modo essa viene creata. L’essenza spirituale di un’opera si differenzia in trascendentale o immanenziale a seconda dello stato di coscienza in cui è stata creata. Quindi vuol dire che, contrariamente a quanto affermano i grandi storici e i critici, non prendiamo in considerazione il soggetto dipinto, l’epoca, le idee, i concetti, le forme o le tecniche usate. Per stabilire la spiritualità di un’opera prendiamo come riferimento qualcosa che non ritroviamo in nessun manuale di storia dell’arte: la condizione di alterazione profonda dell’artista e la capacità o meno di sintonizzarsi su quella frequenza da parte di individui e società.

Vediamo alcune caratteristiche del criterio di ricerca dell’Istituto ESTETRA. Mantenendo valida l’ipotesi che la spiritualità sia dappertutto, la chiave di volta sembra essere l’intenzionalità, eppure abbiamo constatato per sperimentazione che, per quanto mi sforzi e per quanto mi ci dedichi, quest’esperienza non sorge a bacchetta, non parte da un comando che attivo. In base alla mia capacità di connettermi o sintonizzarmi, posso dire che la mia esistenza è ricca o povera di queste esperienze. Anche quella di un artista si presume abbia una maggiore ricchezza o povertà di questi contatti con il sacro.

Se artisti quali Turner, Monet, Michelangelo, Leonardo, ci dimostrano che nella loro generazione creativa un gran numero di opere sono sintonizzate su questa frequenza, a chiunque sorgerebbero ovvi sospetti. Che cosa succede e perché queste opere così forti, potenti e cariche di spiritualità sono così frequenti in alcuni artisti? Se diamo per vera la seconda ipotesi, le esperienze straordinarie di questi artisti non sono casuali -come per noi, situazioni occasionali e senza controllo alcuno- e che, quindi, essi avessero sviluppato empiricamente dei sistemi e delle pratiche di “spiritualizzazione” o come le abbiamo prima definite, di meditazione trascendentale attraverso l’arte.

Se queste pratiche ci sono ed esistono, ne avranno parlato? Ne hanno parlato molti artisti, ma non in maniera scientifica o descrittiva, come noi cerchiamo ora di affrontare il tema. Parlavano di ispirazione, facevano delle pratiche per ispirarsi, parlavano di energia, di stati mentali, ecc. Di queste strane pratiche ne abbiamo traccia nelle loro testimonianze e, cosa più preziosa e attiva, nelle loro tecniche artistiche. La tecnica, oggi svuotata dai contenuti spirituali, era una meditazione e non solo un procedimento esecutivo, era una preparazione all’ispirazione.

Quindi, la prima ipotesi è dimostrabile, anche se non in questa sede. Affermo che in diverse epoche sono esistiti artisti che avevano gli strumenti per avere esperienze spirituali attraverso la coscienza ispirata.

Chi non aveva queste tecniche ed era meno evoluto a riguardo, era perso nella materialità, discontinuo e occasionale oppure anch’egli poteva creare opere di così tanta bellezza ed efficacia? Poteva, però in forma casuale e occasionale, oppure le sue opere erano meno cariche di contenuti spirituali.

Qual è la sostanziale differenza tra le due opere? Dietro quella che può sembrare una sola differenza estetica, c’è, secondo le nostre ipotesi, una differenza procedurale di sostanziale importanza. I primi, quelli che sentiamo come grandi artisti, non trasferivano contenuti spiritualizzati nelle proprie opere, ma sono arrivati alla trascendenza attraverso la loro arte. I secondi, invece, non avendo la possibilità di avere in maniera diretta e frequente questi stati, traducevano in idee, concetti, immagini, queste esperienze. I primi sono in diretto contatto con lo spirituale mentre dipingono e non vi è un passaggio tra l’esperienza e la sua rappresentazione. Non vi è mediazione, come nel linguaggio, ma manifestazione. Per costoro dipingere e avere l’esperienza del sacro corrispondono nel tempo e nello spazio. Dipingono in piena alterazione di coscienza: non trasferiscono sulla tela contenuti, immagini o traduzioni degli spazi sacri, ma l’opera diventa essa stessa esperienza spirituale, manifestazione dello spirito. È un contatto diretta, è lo strumento che usano per avere l’esperienza. Nei secondi si possono trovare alcune opere trascendentali tra le tante loro creazioni, ma sono meno frequenti perché trasferiscono nell’opera solo la testimonianza indiretta di tali esperienze. Sono opere notevoli, anche molto più facili da cogliere, sono dei gradini intermedi, opere mediate dal linguaggio artistico. Lo spirituale passa attraverso dei veicoli, dei concetti, viene rappresentato, viene illustrato. La differenza tra i secondi e i primi è la stessa che intercorre tra la parola “abbraccio” e l’esperienza dell’abbraccio.

Dobbiamo anche rilevare che nelle stesse opere di un grande artista vi sono opere più ispirate e altre meno. Non che siano del tutto prive di magia, ma sentiamo qualcosa di diverso. Potremmo dire che in queste opere “minori” vi sia inferiore carica energetica, minore definizione, sono meno centrate. Se non si guarda l’opera come fosse un singolo fotogramma di un film -e ciò non va fatto se si vuole comprendere il fenomeno- vediamo che queste opere meno ispirate sono parte di un processo di “caricamento” delle energie e compiono una funzione necessaria e inscindibile per arrivare alle opere “maggiori”.

8. Arte trascendentale Come vediamo, la differenza tra le due tipologie di opere è sostanziale e non solo linguisticamente. La differenza è la stessa che interviene tra il concetto e un’esperienza: nell’esperienza le energie attivate sono immensamente superiori a quelle di un ricordo o di un concetto. Se così non fosse, ci accontenteremo di aver fatto l’amore una volta nella vita ed evocarlo nei ricordi o in una foto, senza cercare di ripetere quante più volte possiamo l’esperienza!

Se il sacro è dappertutto, è indeterminato, ciò che ci mette in contatto è la nostra sintonizzazione. Se osserviamo i momenti in cui abbiamo avuto queste grandi e profonde esperienze subitanee, che consideriamo del tutto casuali, ci potremo forse rendere conto che qualcosa abbiamo fatto, che il momento vitale aveva delle caratteristiche, che un movimento del nostro essere cercava questo contatto.

Quest’intenzione diffusa, che chiamiamo Proposito, non agisce in maniera puntuale come un “lo voglio”, ma crea una tendenza, che a sua volta produce una frequenza che cerca di sintonizzarsi sul sacro. Quando meno ce lo aspettiamo, ci coglie l’immenso. Il proposito non è uno stato, è una tendenza. Così come non è uno stato l’innamoramento, come alcuni credono, ma esso è spinto dal desiderio, è una costante macchina al lavoro. Gli artisti sono ossessionati dalle loro opere, dalla loro necessità creativa, la quale è mossa dal “desiderio creativo”, in alcuni di loro un’evidente o celata tendenza al sacro e al divino.

La cosa sembra difficile e complessa, e lo è. C’è qualcosa che facilita il contatto col sacro? Non lunghe e disciplinate pratiche di meditazione, che esistono anche negli artisti nella loro peculiare forma, ma qualcosa di più sintetico, facile e immediato? Se ci fossero ad esempio dei “portali”, che fanno accedere agli spazi sacri, che facilitano nell’avere queste esperienze? Sarà possibile che gli spazi interiori dell’anima, così potremmo definirli, si possano plasmare anche all’esterno? Qui sta la grande differenza che ricorre tra un’opera trascendentale e una che tende ad esserlo, ma che non si compie nella sua tendenza.

Se così fosse, siamo giunti alla sesta ipotesi. Le opere trascendentali aprono una porta tra dimensioni, sono dei canali tra lo spazio profano e quello sacro. Come faccio ad accedere a questi spazi attraverso l’opera d’arte? Certo non passando in un museo e osservando un quadro per pochi secondi: è lì che mettono questi “portali” per poi disattivarli, rendendoli merce per fare soldi. Usano il fenomeno di attrazione verso la spiritualità per accrescere il prestigio e le loro casse.

Dovremmo forse riappropriarci dell’arte. Queste opere sono spesso nate per decorare chiese e luoghi pubblici, ma anche stanze private: creavano un campo di sintonia con il tema della stanza o del luogo. Queste opere, molte allontanate dalle loro collocazioni, sono oggi poste in luoghi affollati, rumorosi, totalmente desacralizzati. Eppure quando entriamo in questi musei, che definisco cimiteri di opere d’arte, che facciamo? Se siamo connessi ci viene da fare silenzio. Cosa cerchiamo nel silenzio e nel vuoto?

Avrei ancora tanto da dire su questo fenomeno: sul perché chi vive queste esperienze le vuole poi trasmettere, come avvengono la trasmissione e la captazione, quali sono le differenze formali e stilistiche tra le opere trascendentali e non, come fare a riprodurre quelle condizioni, ecc. Ma ho già abusato molto del vostro tempo e della vostra attenzione. Prima di concludere riassumo le ipotesi sorte finora. La nostra spiritualità è interiore e si basa sull’esperienza personale. L’esperienza spirituale trascende il percepire quotidiano. L’esperienza spirituale è un vissuto totalizzante e indefinibile. L’arte è nata per esprimere l’esperienza spirituale. La creazione artistica può essere uno strumento di meditazione trascendentale. Il linguaggio dell’arte non è descrittivo, ma evocativo secondo un sistema di sintonizzazione. Quest’esperienza si può trasmettere in maniera mediata o immediata. Nel primo caso l’arte è un linguaggio e nel secondo un’esperienza. Nell’arte trascendentale l’esperienza si esprime nel qui e ora e ci propone una frequenza energetica. Questa frequenza permette, come un portale, di entrare in contatto con il sacro. In questo caso l’arte compie pienamente lo scopo della sua origine: essere manifestazione del sacro e non solo apparire nella rappresentazione.

9. Conclusioni Vorrei, infine, concludere con delle raccomandazioni su come cogliere l’occasione di attraversare un portale, perché questo dipende non solo dall’artista -che fa la sua parte-, ma dipende anche da noi che, in qualche modo, decodifichiamo e ci mettiamo in sintonia con la sua intenzione trascendentale.

Queste raccomandazioni sono tratte dal metodo, frutto di varie sperimentazioni nei musei, nato per avere quella che definiamo un’esperienza profonda estetico-spirituale.

1. Sfogliate un libro di storia dell’arte e scegliete un artista che sentite vi dà qualcosa di speciale. 2. Fate delle ricerche per capire in quale museo vi sono la maggior parte delle sue opere, non accontentatevi di un quadro solo per sintonizzarvi, è utile avere più occasioni. 3. Prima di vedere i quadri non leggete le note critiche e tutte quelle cose che potrebbero deviarvi verso l’esterno dell’opera. 4. Ponetevi con calma e grande silenzio interno di fronte alle opere. 5. Chiamate lo spirito dell’artista o della musa a fianco a voi, ringraziatelo/a e chiedete che vi accompagni e vi aiuti a entrare in contatto con il sacro. 6. Soffermatevi vari minuti, anche decine di minuti, a guardare l’opera che più vi colpisce, non abbiate paura di ritornare più volte sulla stessa opera e a più riprese, vagate tra i quadri assecondando i richiami come una danza dell’occhio e dell’anima, fatevi cullare dalle immagini. 7. Davanti a suoi quadri domandate all’artista: “Cosa mi vuoi dire amico/a mio? Sono qui per comprenderti e ascoltarti.” 8. Forse riuscirete ad entrare nello spazio sacro. A quel punto non cercate di censurare ciò che vi succede, è molto probabile che vi commuoverete e il vostro cuore scoppierà di gratitudine. 9. Salutate il nostro amico e ringraziate lui e l’universo, o chi volete, per il dono ricevuto. 10. Usate quest’esperienza per domandarvi sul senso della vita e se la morte veramente fermerà il vostro volo, così come non ha fermato il volo del nostro caro amico.

Come artista mi piace sentire che la mia responsabilità sociale sia molto importante e più alta di quella che mi fanno credere, non seconda a quella dei riformatori sociali, dei rivoluzionari e delle grandi guide spirituali. Come artista so che posso animare la materia fino al punto di renderla un portale per gli spazi sacri. Come artista mi piace pensare che ogni volta che apro un portale che permette di andare dall’altra parte, mi auguro che il sacro possa, in senso inverso, fuoriuscire e riempire la nostra stanza, riempire la nostra città, riempire il nostro pianeta e, cosa più importante, riempire i nostri cuori così aridi e assetati di senso.

produzioni/arte_trascendentale.txt · Ultima modifica: 2013/01/31 12:20 da fulvio